domenica 1 novembre 2015

Chiamati alla felicità nel qui ed ora



Forse eravamo troppo concentrati su noi stessi, forse le nostre sofferenze, la stanchezza data dal  nostro “male di vivere” ci ha piegati e resi impermeabili ad una possibilità di gioia, ad una chiamata alla felicità.  Forse il protrarsi per lungo tempo di un dolore che pervade ogni istante da sempre e sino alla fine  intristisce il cuore fino a renderlo cupo. 

Eppure, malgrado tutto, pur nel dolore dentro il quale, in modi diversi, siamo tante volte destinati a vivere, quasi inchiodati  e con la rabbia e la disperazione che prepotenti schiacciano il cuore e lo inaridiscono, si affaccia pur una luce fioca, quasi una scintilla.   Pur facendo di tutto per rimuoverla, nasconderla sono convinto che la sofferenza sia sempre presente e minaccia contraddicendo  la  nostra vita felice: è presente nelle viscere, nelle menti e nei cuori che soffrono fino a piangere e gridare.

Chi è afflitto e angosciato, chi sperimenta sin nel midollo la sofferenza fa l’esperienza di non poter esprimere completamente né di poterla comunicare credendola unica e assoluta.

Si urla al cielo: «Che senso ha soffrire? Perché soffrire cosi?»

Sono convinto che non vi sia una risposta chiara ed evidente al perché della sofferenza, a questo enigma, neanche a partire dalla fede.

Non ho mai creduto che le sofferenze di per sé sono utili né salvifiche, né meccaniche portatrici di purificazioni.  Credo però che in esse e attraverso di esse si giochi sempre la salvezza della nostra vita, la ricerca di senso: in particolare, quando le sofferenze ci travolgono e sembrano non finire mai fino a sommergerci, proprio allora ci è chiesto di impegnarci ad amare e ad accettare di essere amati. Proprio allora è come se fossimo chiamati a trovare nuovi punti di vista, nuovi orizzonti. Nella debolezza siamo chiamati a lottare, ad ingaggiare una fiera resistenza.  E pure anche una condotta di accettazione e di obbedienza alla nostra condizione: non siamo eterni, non siamo onnipotenti, non siamo immuni da malattia e dolore. E questa lotta sarà tanto più valida  e più ricca di significato se è fatta «insieme», in modo che «si piange con chi piange» (cfr. Rm 12,15), si è a fianco di chi è malato, si abbraccia chi si sente attrarre e sprofondare nel precipizio.
Nessuno può risolvere il problema della sofferenza né c’è alcuna risposta certa al perché di così tanto "gratuito" soffrire, ma le vie di consolazione sono percorribili, con gli altri e comunque con Dio, il Consolatore.  


Leggo le Beatitudini,  quel grande discorso di Gesù, riferito da Matteo, come il discorso della montagna.   Già all’inizio preannuncia solennità, ogni piccolo gesto è come se fosse ripreso al rallentatore: Gesù vede le folle, sale sul monte, si mette a sedere, inizia a parlare (nel testo originale greco dice “apre la sua bocca”), comincia ad insegnare. Questo ritratto esprime l’importanza di quanto Gesù sta per dire e l’autorità di vero maestro con cui Egli parla.

La prima e l’ottava beatitudine hanno la stessa motivazione: perché di essi è il regno dei cieli. Dunque il tema del regno dei cieli apre e chiude le beatitudini, le “racchiude” come una cornice.     



Penso che Matteo volesse offrire una pagina indimenticabile, che rimanesse indelebile al punto che tutte le generazioni di cristiani potessero assimilarla, farla entrare nel nostro modo di pensare e di vivere.



Sono due i termini ricorrenti e decisivi: beati, e regno dei cieli.   Sono molte le beatitudini che sono presenti nella Bibbia (ad es. il primo salmo si apre proprio con le parole: Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi). Gesù stesso pronuncia altre beatitudini. Per esempio: Beato chi non trova in me motivo di scandalo (Mt 11,6); Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano (Lc 11,28); Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto (Gv 20,29).   Ma è  solo qui che abbiamo un elenco di beatitudini.



Il termine beato potrebbe anche essere tradotto con un’esclamazione del tipo: “Felicità”, ”prosperità”, “auguri a…”.

Dunque quasi a dire “felicitazioni a te che ti disponi a diventare discepolo del regno”. Coloro di cui parla Gesù, sono persone che hanno motivi per rallegrarsi, che trovano ragioni - profonde, non superficiali - per considerare la loro vita degna di essere vissuta, e questo genera gioia.

Le Beatitudini ci dicono allora che la vita cristiana non è contraria o indisposta alla felicità o diffidente. Credo che al vita cristiana autentica non sia da intendersi solo come una vita buona, cioè ispirata alla bontà e all’amore, ma è anche una via di bellezza e di felicità; c’è in essa una chiamata alla felicità.   



Dio è chi in ogni modo consola i suoi figli quindi si può rischiare di lasciarsi raggiungere da qualunque sofferenza perché egli cambierà il nostro stato di dolore in un’esistenza di gioia.

In realtà, non sempre noi mostriamo questo volto felice della vita cristiana. Vive gioiosamente chi ha scovato motivi validi per cui vale la pena di vivere; ragioni per cui si può spendere quotidianamente la vita, e addirittura morire. Le beatitudini ci aiutano a scoprire queste ragioni.

E si deve notare che la felicità prospettata dalle beatitudini non è (solo) quella futura, quella dell’aldilà (alcuni esegeti mostrano che neppure vi si alluda a un “paradiso”).  Spesso s’intendono così le parole di Gesù: adesso sei in uno stato di sofferenza; ebbene, abbi pazienza, resisti, stringi i denti, perché nell’aldilà, in paradiso, finirà ogni sofferenza e avrai solo gioia (in questo senso possono avere buon gioco i detrattori del messaggio cristiano).



Ma Gesù non dice che i poveri, i miti, gli afflitti saranno beati: dice che sono beati, lo sono ora. È nella loro condizione presente, nell’hic et nunc, che essi, mettendosi alla sequela di Gesù, sperimentano la felicità.  È vero, la trovano dentro la storia in cui sono incarnati, nelle condizioni difficili (la povertà, l’afflizione, la persecuzione…la lista si può allungare sino a comprendere ogni tipo di sofferenza, la malattia, );  ma proprio in queste condizioni sono chiamati a far emergere la consapevolezza che dentro l’orizzonte del Regno, cioè dentro la relazione con Dio, nel cammino al seguito di Gesù, anche queste situazioni umanamente pesanti, negative o distruttive possono essere vissute come produttive,  si trasformano.  L’accoglienza del vangelo, della ”buona notizia” del Regno di Dio che si fa presente, cioè del suo amore, trasforma l’esistenza, facendo emergere  una gioia nascosta.

Tutto ciò può sembrare illusorio, ingannevole.

Sconforto e rabbia possono accamparsi dilatandosi alla radice dell’esistenza.  E anche questi sentimenti sono vivi nel cuore dell’uomo e in alcune parti attraversano la parola di Dio.



Eppure, è esperienza quotidiana, s’ incontrano persone che, nella fede, pur vivendo prove difficili (lutti, malattie incurabili, offese subite, precarietà economiche, ecc.), lasciano trasparire serenità, speranza, accettazione.  L’affermazione di una possibile felicità di vita esclude la rassegnazione, il ripiegamento estremo.



Persino riescono a farsi carico e sono più attente alle piccole sofferenze degli altri che alle loro grandi sofferenze. Penso anche al testo degli Atti degli Apostoli, in cui si dice che gli apostoli, dopo essere stati fatti flagellare per ordine del Sinedrio, «se ne andarono lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (5,41). Flagellazioni e oltraggi erano per loro, senza dubbio, una reale sofferenza; ma il subirli “per il nome di Gesù” (cioè per la sua persona di Gesù) era motivo di letizia.

Rimane anche vigile lo sguardo al futuro, al compimento delle promesse di Dio, all’oltre la morte, all’ultima parola che sarà da lui pronunciata.

Il testo dice che sono beati perché saranno consolati, saziati; erediteranno, vedranno, troveranno. 
È una beatitudine dove ha grande spazio l’ affidamento, la speranza, lo sguardo in avanti.


La decisiva gioia futura è anche gioia assaporata nel presente. 
Nel qui ed ora la genesi, la radice e l’inizio della chiamata alla felicità.

venerdì 2 ottobre 2015

La povertà e il Patto delle catacombe



Questo papa è simpatico, avvicina i lontani, suscita emozioni forti. E’ espansivo, affabile, estroverso. In una parola: piace. E se lo si compara ad altri pontefici, vicini e lontani, vince nel confronto. Ha parola che attrae, sorrisi che allargano il cuore. Quindi il sillogismo è scandito in questo modo: papa nuovo, chiesa nuova. E’ quel che si attendono molti.
 Il ritornello è quello di avere una Chiesa più moderna, e ciò, nella maggioranza dei casi, potrebbe tradursi semplicemente nell’invito ad adeguare le scelte e gli insegnamenti cristiani a quel che è il pensare comune.
L’ovvietà del pensiero comune straripa. Da parte mia mi auguro invece che la Chiesa guadagni in autenticità evangelica. In fondo perché la Chiesa non deve adeguarsi a null’altro che non sia il Vangelo di Gesù Cristo.
Bisogna poi ammettere che spesso proprio questa verità viene ingannata nei fatti, sia dalla gerarchia ecclesiastica quanto dal popolo dei fedeli, con parole opere ed omissioni. Con scelte ed atteggiamenti scandalosamente  distanti dall’insegnamento evangelico. Offuscando e allontanando persino quelle voci che, anche all’interno della Chiesa non smettono mai, da secoli, di richiamare alla amorosa fedeltà radicale a Gesù e  alla sua Parola. 
Sono andato a rileggere il cosiddetto Patto delle Catacombe.
Il 16 novembre 1965, durante il Vaticano II, un gruppo di 40 Vescovi di vari continenti si ritrovò nelle Catacombe di Domitilla, una quarantina di km da Roma, per celebrare l’Eucaristia e firmare la fedeltà a un testo dalla grande portata profetica. Lo scritto fu consegnato poi dal Cardinal Lercaro al Papa e sottoscritto in seguito da più di 500 Vescovi. Con questo Patto i firmatari intendevano mettere al centro del loro ministero i poveri, impegnandosi a condurre essi stessi una vita sobria ed essenziale. Il testo nacque sulla spinta iniziale di una dichiarazione di Giovanni XXIII, precedente di un mese all’apertura del Concilio, che invocava la Chiesa come «Chiesa di tutti e in particolare dei poveri». Fu proprio il Cardinal Lercaro, al termine della prima sessione di lavori, a richiamare il tema invitando i confratelli a fare dei poveri il nucleo caldo di tutto il Concilio: «Non renderemo giustizia al nostro compito se non facciamo del mistero di Cristo nei poveri e dell’evangelizzazione dei poveri il centro, l’anima del lavoro dottrinale e legislativo di questo Concilio. Non può essere un tema del Concilio tra gli altri, ma deve diventare la questione centrale. Tema di questo Concilio è la Chiesa in quanto Chiesa dei poveri». Da lì nacque il gruppo dei Vescovi che spinse affinchè il tema dei poveri toccasse molti se non tutti gli ambiti di lavoro del Concilio e che poi diede origine al testo del Patto. Tra questi: Camara, Larrain, Himmer, Hakim e lo stesso Lercaro.   Rimane davvero strano il fatto che una dichiarazione di questa portata, considerato il  numero e lo “spessore”dei firmatari, sia poco conosciuta e confinata tra gli episodi marginali della storia della Chiesa contemporanea.  Sono convinto che la povertà  non sia un consiglio riservato ad alcuni ma un’esigenza evangelica ineludibile per tutti i cristiani. Non credo sia una questione marginale.  E’ evidente che non c’è un unica modalità, una sola interpretazione che  possa normare  le forme storiche della povertà che già nel Nuovo Testamento si presentano molteplici e  diversificate. Però da come viviamo la povertà dipende la forma e lo stile che la Chiesa si dà nella storia per testimoniare, con credibilità, la vicenda di Gesù di Nazareth.
Val la pena far riemergere l’interrogativo su come sia possibile tradurre oggi tutto questo.
E se non basta dire che si fa e si ha tutto “a fin di bene”, forse è il caso – in un confronto ecclesiale
autentico, non paludato e autoreferenziale – elaborare criteri che permettano di custodire, dentro le cose del mondo, la “differenza cristiana”.
Patto delle Catacombe.
Noi vescovi, essendo stati illuminati sulle deficienze della nostra vita per ciò che riguarda la povertà evangelica, incoraggiandoci gli uni gli altri in una medesima iniziativa nella quale ciascuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; uniti a tutti i nostri fratelli nell’episcopato; contando soprattutto sulla forza e la grazia di nostro Signore Gesù Cristo, sulle preghiere dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi; mettendoci, col pensiero e con la preghiera, al cospetto della Trinità, della Chiesa di Cristo, del clero e dei fedeli delle nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza ma anche con tutta la determinazione e la forza della quale siamo sicuri che Dio voglia darci la grazia, ci impegniamo a quel che segue:
1. Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso (Mt 5,3; 6,33.34; 8,20).
2. Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi (queste insegne devono essere di fatto evangeliche, cf. Mc 6,9; Mt 10,9.10; At 3,6).
3. Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale; e se sarà necessario averne, le intesteremo tutte alla diocesi o a opere sociali o caritative (cf. Mt 6,19.21; Lc 12,33.34).
4. Affideremo, ogni volta che sia possibile, la gestione finanziaria e materiale nelle nostre diocesi a un comitato di laici competenti e consapevoli del loro compito apostolico, per poter essere meno degli amministratori che dei pastori e degli apostoli (cf. Mt 10,8; At 6,1-7).
5. Rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza (per esempio: eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiamo essere chiamati con l’appellativo evangelico di «padre».
6. Nel nostro modo di comportarci, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo ciò che può procurarci privilegi, precedenze o anche di dare una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti (per esempio: banchetti offerti o accettati, «classi» nei servizi religiosi ecc.; cf. Lc 14,12.14; 1Cor 9,14.19).
7. Eviteremo anche di incoraggiare o di lusingare la vanità di chiunque con la prospettiva di ricavarne ricompense o regali o per qualunque altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare le loro offerte come una normale partecipazione al culto, all’apostolato e all’azione sociale (cf. Mt 6,2.4; Lc 16,9.13; 2Cor 12,14).
8. Dedicheremo tutto il tempo necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di lavoratori che sono in condizione economica debole o sottosviluppata, senza che questo nuoccia ad altre persone o gruppi della diocesi. Sosterremo i laici religiosi, i diaconi e i preti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai e a condividerne la vita operaia e il lavoro (cf. Lc 4,18; Mc 6,3; Mt 11,4-5; At 18,3.4; 20,33.35; 1Cor 6,12 e 9,1.27).
9. Consapevoli delle esigenze della giustizia e della carità e dei loro mutui rapporti, noi cercheremo di trasformare le opere di beneficenza in opere sociali, basate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze come un umile servizio degli organismi pubblici competenti (cf. Mt 25,31-46; Lc 12,13-14; 18,34).
10. Faremo di tutto perché i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici stabiliscano e applichino leggi sociali e promuovano le strutture sociali necessarie alla giustizia, all’eguaglianza e allo sviluppo armonioso e totale di tutto l’uomo in tutti gli uomini e giungano con questo a stabilire un nuovo ordine sociale degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio (cf. At 2,44.45; 4,32.33.35; 5,4; 2Cor 8,9; 1Tm 5,16).
11. Poiché la collegialità episcopale trova la sua attuazione più evangelica nell’assumersi in comune l’onere delle masse umane in stato di miseria fisica, culturale e morale (due terzi dell’umanità), noi ci impegniamo a partecipare, secondo le nostre possibilità, agli investimenti urgenti degli episcopati poveri; di raggiungere insieme, a livello delle organizzazioni internazionali ma a testimonianza del Vangelo, come il papa all’ONU, lo stabilimento di strutture economiche e culturali che non accrescano il numero delle nazioni prole- tarie in seno a un mondo sempre più ricco, ma permettano alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
12. Ci impegniamo a dividere nella carità pastorale la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, preti, religiosi e laici, perché il nostro ministero sia un vero servizio. Così ci sforzeremo di «rivedere» la nostra vita con il loro aiuto. Prepareremo dei collaboratori per poter maggiormente animare il mondo. Cercheremo di essere più umanamente presenti e accoglienti; ci mostreremo aperti a tutti quale che sia la religione di ciascuno (cf. Mc 8,34.35; At 6,1-7; 1Tm 3,8.10).
13. Ritornati nelle nostre rispettive diocesi, noi faremo conoscere ai nostri diocesani queste nostre decisioni, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere. Che Dio ci aiuti a essere fedeli.

lunedì 31 agosto 2015

Tardi t'amai (quasi un'autobiografia) grazie a Giancarlo S. (Trevi 2015)

"El pueblo unido jamas  sera  vencido..."   .............    "... se il vento fischiava ora fischia più' forte..."

Dalla radio accesa una voce seriosa rievoca gli anni di piombo del nostro recente passato.
Stagione rabbiosa e sconvolgente.

L'auto scivola veloce sulla strada a quest'ora di sera. Ancora  un paio d'ore e sarò a casa dopo una giornata piena di lavoro.

Lascio i pensieri ad arruffarsi fino a pescare immagini e suoni di tanto tempo fa.

" Vecchia piccola borghesia un giorno il vento ti spazzerà via..."

Tempo lontano mitizzato, reso magico dove ancora i mostri erano vivi e sputavano fuoco seminando terrore e, spietati, spargevano sangue d' inermi su piazze e treni.
Gli eroi erano giovani generosi e incoscienti, spiriti caldi, affamati e assetati di giustizia e verità, corteggiatori di fanciulle dagli occhi sognanti color del mare.

"... Trionfi la giustizia proletaria...".

Be' non era proprio così  ma a lungo mi son trastullato con queste immagini.

Stagione epica, carica di violente passioni, lotte e speranze.
E poi ero giovane e la vita scorre ai piedi dei giovani; in osterie maleodoranti e fumose tra bagasce e balordi  scolando vino e cantare sino a notte fonda al suono di chitarre "... Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta...".

Frugo tra i ricordi. Non ho età certa ne volto definito.  La barba è fluente, rossiccia e incolta.

 "... Gli eroi son tutti giovani e belli..."  e poi  "... A vent'anni si è stupidi davvero quante balle si ha in testa a quell' età...".

Maschera da duro a coprire paure. " Viva Marx  viva Lenin viva Mao Tze-tung"
Ciò che chiarisce il mondo dell'umano è un'affermazione balbettante, tremolante che spalanca all'inspiegabilità e rimane mistero.

In un certo modo si definisce tutto senza dare - avere- trovare una spiegazione.
Non è lineare la vita ne  l'attraversarla è percorso noto, agevole.

Ho strappato istanti di leggerezza tra tormenti e dubbi ostentando sicurezza e decisione . Spavalderia  " ah, ah, ah, una risata vi seppellirà " .

Zigzagavo tra vita e morte, d' istinto e costretto, mai risparmiandomi.
Casco in testa calato in volto, tascapane pesante di biglie d'acciaio e pietre "...e tirare i sampietrini nell'incendio di Milano e le spranghe sui fascisti e le pietre sui gipponi....".
Pestaggi , corse forsennate ferite e sangue, manganelli, molotov , occupazioni, urla , cariche di pulotti e celerini.  Una madre disperata e un padre furibondo.

O da una parte o dall'altra, il tutto o il nulla.
Ho scommesso, si perde o si vince.

Sconfitta e vincita avvinghiate nello stesso campo. Si perde vincendo come puoi vincere perdendo.
"Lotta  dura senza paura". Ma dentro, dentro si vive un'altra dimensione, si piange.
Ci si abbraccia per sfidare l'oppressione del vivere.
Ho corso e inciampato, ho seminato e raccolto dolore.
Altri , compagni di vita e scorribande, sono rimasti a terra, travolti e ingoiati dalla storia , da odii e briciole di merda.
Overdose, AIDS, galera, pellegrinaggi in India in cerca di pace.

Per culo o provvidenza mi è andata bene.
C'era un altro me stesso dentro di me e quello mi ha tenuto vivo nascondendomi al mondo.
Ha avuto compassione chinandosi, risparmiandomi.
Preso per i capelli , gettato su un aereo volo diretto Canada Toronto grandi laghi. On the road su un vecchio truck .

E' già tardi, anche le ultime luci del giorno si affievoliscono.
Mentre alla radio trasmettono " Gracias a la vida" a chiusura della trasmissione su gli  anni di fuoco e fiamme e mentre penso a casa a mio figlio che già dorme e a mia moglie che mi aspetta, mi sorprendo a canticchiare alcuni passi pieno di gratitudine .
"Tardi t'amai bellezza così antica e sempre nuova".

martedì 21 luglio 2015

un punto zero



Ho sempre pensato che fossero le risposte a rendere interessanti le persone. Così degne d’ascolto e attenzione.
Consideravo che più risposte si conoscessero più intelligenza, cultura e studio emergessero.  Ero convinto del fatto che più la persona fosse dotata di pareri e soluzioni, maggiore doveva essere la sua saggezza e il suo ingegno.

Mi sono ricreduto da quando sono padre.
Sono i bimbi che di continuo chiedono ai padri risposte certe e definitive a domande a volte anche incredibili.

Ritorno bimbo con mio figlio e ora coltivo più domande aperte che risposte definitive. Non riescono più a darmi soddisfazione opinioni travestite da certezze consolidate, verità dogmatiche inossidabili.
Non rinuncio a interrogarmi, a investigare ciò per cui credo valga la pena.  

In questi giorni ho ricevuto nei miei uffici i genitori di Giulia, una bimba d’una manciata di anni che, a detta della mamma “va in arresto cardiorespiratorio per niente”.
Giulia mi è descritta come una bimba “che c’é ma non si sente, la sua è una presenza che non passa inosservata, ma non respira perché al suo posto c’è un macchinario che dà l’ossigeno di cui ha bisogno, giorno e notte, non cammina”. …”ma c’è!” a quest’affermazione quasi gridata dal papà ci si ritrova a sorridere tutti e tre nel mio ufficio mentre porgo loro un caffè.

Mi raccontano di ospedali e cure, di pellegrinaggi e santuari, di medicina tradizionale e fiori di Bach.
Giulia non riesce a reggere nelle mani nulla, non riesce a fissarti con lo sguardo. Sembra non ci sia alcuna relazione. Eppure ogni tanto, quando meno te lo aspetti, alza il pollice e ti sorride con uno sguardo accattivante.  “Verrebbe voglia di mangiarla” sussurra il papà.
Con versetti ormai noti, impercettibili quasi ad orecchie estranee, Giulia sembra chiedere “tante grattatine lungo i fianchi e nella schiena” aggiunge la mamma.

Papà Carlo esprime un concetto bellissimo: “Giulia ci fa scendere le scale mentre noi avremmo voluto salirle”.

Già anche il fondo delle scale ha un senso e forse è da quello che occorre riandare, avere il coraggio di ripercorrere l’esistenza, il vivere quotidiano, dalla scala che porta alla cantina.

Quasi in contemporanea papà Carlo e mamma Gloria insistono su un punto: “Non siamo rassegnati, neanche minimamente masochisti della rinuncia, non abbiamo mai amato né desiderato la sofferenza… non ci accontentiamo di gioie fittizie.   E’ una gioia reale, abbiamo imparato a stare bene anche con Giulia, la nostra unica figlia”.
Riprende Carlo: “non sto dicendo che non sia uno scandalo, ma è uno scandalo che si chiama Giulia, con due occhi bellissimi e dei chiari capelli mossi …ed è mia figlia…”.

Ci sono stati attimi di commozione. E le mani di mamma Gloria accolgono quelle del suo compagno.
Poi riprende: “io mi metto davanti a Giulia e dico ma cazzo mi hai tolto tutto… non hai niente di quello che io volevo”.

Ritrovo in queste parole un punto di contatto profondo con quanto Simone Weil diceva a proposito del suo punto zero. Dove sei ridotto a cosa, spogliato di tutto, dove non conti nulla e sei uno zero assoluto, né ci sono segni di relazione che ti significano e danno vita e senso, né nudo e materiale contatto umano.  Quando tutte le attese sono deluse.  E’ lì che t’immobilizzi e forse pare di entrare in contatto con un’altra realtà. Un punto zero come luogo di pura contemplazione.

In fondo qualsiasi genitore per un figlio si aspetta tutto il meglio: che sia sano, che parli e cammini, che sia bello, che sia buono e intelligente,..
Invece nulla di tutto ciò: Giulia è arrivata e di tutto ciò non ha niente.

Gli abitanti del limite, gli abituali residenti del punto zero, senza neppure averlo scelto, riaprono domande, non pongono certezze.
Il punto di domanda apre al giorno per giorno, all’osservazione attenta e instancabile, a riflessioni anche ardite spalancando lo sguardo sull’orto della fede dove grazia e disgrazia s’intrecciano.
Tutte le teodicee del mondo, con le loro interpretazioni e ipotesi, Dio c’è/non c’è, punisce/non punisce, benedice/maledice s’inchinano alla misericordia con cui verremo abbracciati.

L’handicap non rivela né l’impotenza né la potenza di Dio; forse svela solo il limite dell’umano, di chi lo porta subendolo e di chi lo guarda.
Neppure può essere benaugurante la morte d’una bimba come Giulia, quasi grazia affrancatrice.
Io so solo che Gesù, la sola reazione che ha avuto davanti ad un bimbo morto, è stata che gli è venuto voglia di farlo resuscitare.

Se noi i miracoli non li sappiamo fare l’unica cosa che ci rimane, è il silenzio, la riscoperta della contemplazione. Aprirci alla preghiera muta, davanti al mistero.

Saluto papà Carlo e mamma Gloria e pur essendo la prima volta che ci incontriamo, nasce spontaneo un abbraccio che dice condivisione.