Sono sobbalzato dopo aver letto una notizia sul Corriere
della Sera del 27 febbraio. Una di
quelle notizie appena accennate, senza grande enfasi. Quasi a riempire un
piccolo vuoto su una pagina. Capace però di fotografare, meglio e più d’ogni
altra istantanea, la condizione di salute del nostro quotidiano.
In un istituto superiore di Milano, una giovane
diversamente abile sulla sedia a rotelle, è al centro di una polemica
incresciosa. Alcuni suoi compagni ritengono che la sua presenza rappresenti il
motivo per cui diverse gite di classe siano state cancellate. Anche altri suoi
compagni (mai come in casi simili vorrei usare questo sacro vocabolo: da cum
panis, il dividere il poco e il molto che si ha; il condividere la sorte, la
sfiga e la fortuna) non vanno sul tenero attribuendole la responsabilità
d’impedire che la classe vada a pattinare o ad equitazione, attività previste
dal programma.
Sulla mailing list dei genitori di quella classe intanto
s’apre una disputa parallela, accesa come quella dei figli.
Molte le madri a stracciarsi le vesti perché quella
ragazza, orrenda portatrice d’una diversità manifesta, impedisce il regolare
svolgimento didattico ai loro pargoli. Persino una rappresentante del consiglio
d’istituto ha suggerito alla mamma della ragazza “colpevole” di mandare la
propria figlia in una scuola speciale.
Sotto un cielo plumbeo che avvolge questa vicenda scorgo
il risultato di decenni di trascuratezza educativa, una diffusa propagazione di
confusione etica, un infiacchimento della dimensione morale del vivere sociale.
Nell’attuale grigiore vedo la profonda crisi del mondo
adulto, neppure più capace di porsi la fatidica inquietante domanda che apre
alla speranza: “cosa trasmetto ai miei figli?”.
Neppure più l’interrogativo capace di generare un’attenzione
educativa: “chi sono io adulto davanti ai giovani?”; “quali valori posso/devo/voglio
loro trasmettere?”.
Il più delle volte passiamo segnali d’una vita misera, gretta. Fatta d’irresponsabilità e cinismo, di meschinerie e ambiguità.
Anagraficamente adulti ma incapaci di trasmettere valori,
ideali, richiami a nobili mete; così fragili, vuoti, superficiali, arroganti. Così
pronti a emulare le gesta di personaggi squallidi e pusillanimi, così lesti a
consigliare scorciatoie ed espedienti per arrivare ad apprezzabili quotazioni
sociali. Escort, nani e ballerine han sostituito eroi, santi e profeti.
Perché i giovani dovrebbero essere diversi se gli adulti
son la testimonianza di individui confusi, alienati, stupidi?
Sfugge ai più che la parola adolescente null’altro
significa che un tempo per diventare adulti. Sfugge perché nessuno lo ricorda
più che noi adulti siamo cresciuti guardando gli altri davanti a noi, appunto
gli adulti (che non è altro che il participio passato di adolescere ossia
crescere). Ci servirebbe la dignità e la fierezza di un san Paolo quando nella
prima lettera ai Corinzi scrive: “Quand’ero bambino parlavo da bambino, pensavo
da bambino ragionavo da bambino. Divenuto uomo ho eliminato ciò che è da
bambino” (13,10-22). Ci vorrebbe il suo coraggio e la sua franchezza quando,
con toni appassionanti, parla al suo discepolo Timoteo: “Tendi invece alla
giustizia, alla pietà, alla fede, alla pazienza, alla mitezza" (1 Tm
6,11b). Son queste le caratteristiche belle dell'essere adulto: la giustizia,
la pietà, la fede, la pazienza, la mitezza.