domenica 18 dicembre 2016

Accogliere il dono, farsi abitare



Poche righe nell’ultima domenica d’Avvento, la prossima domenica festeggeremo il Natale.

Alcuni supermercati, ormai da tempo, son già aperti 24 ore su 24, i carrelli della spesa traboccano mercanzie. Vogliamo certezze, accumuliamo ogni cosa sotto il segno della previdenza, dell’assicurazione, del risparmio e dell’accumulo per un oggi e per un domani.   In fondo “non si sa mai”.

 Avvento indica sia che qualcosa sta avvenendo, sia che qualcuno sta venendo.

Eppure siamo così allevati alla continua reiterazione del procedere dell’esistenza, che non riusciamo a scorgere ciò che sta accadendo o chi sta arrivando.

 Addestrati alla ripetitività percorriamo il presente sulle tracce del passato, ingessando nel qui e ora qualunque situazione nota e vissuta da riprodurre/vivere per sempre. D’altra parte ciò è rassicurante.

Si è tranquillizzati nel vivere ripetutamente un’esistenza che ha allontanato la novità, che ha estromesso possibilità di originalità/imprevisto/cambiamento,…

Non crea allarmismi/preoccupazioni, non agita il tranquillo tran tran quotidiano,  né più di tanto quella quotidianità ripetuta a memoria, vissuta in automatico.

Le luci e gli addobbi ovunque, pacchetti colorati tra le mani, personaggi del presepe e alberi agghindati e luccicanti. Auguri e regali coi sorrisi delle grandi occasioni stampati sulle labbra…

Avvento, tempo di attesa… ci sentiamo ripetere. Aspettiamo cosa, aspettiamo chi? Ma siamo sicuri di aspettare qualcosa o qualcuno? In realtà forse non attendiamo nulla e nessuno. Abbiamo spento i nostri desideri per paura di essere delusi. Fintamente trascorriamo questo tempo in attesa d’un Godot che mai arriva…

Chi si contenta gode: ci facciamo bastare, per paura di perderlo, quel poco che abbiamo o siamo. E’ spento il desiderio, perché è morta la speranza o ridotta al lumicino. Ciò che manca di più oggi, in questo nostro tempo di incertezze e di crisi di ogni tipo, è il coraggio di attendere una risposta, l’audacia e la temerarietà di ricercare quel riscontro che appaga il cuore insoddisfatto.

 Valgono le parole, lapidarie quanto profonde  e attuali  di Thomas Merton: “Vi sono tanti uomini, anche grandi uomini, i quali pensano che l’unico atteggiamento autentico è quello della franca accettazione della disperazione nei confronti della vita”.

Una banale quanto annoiata vita vissuta. Un mediocre ed insensato quanto inutile  trascinarsi tra la disperazione, il disincanto e il triste atteggiamento scettico ci accompagna nella  fatica del nostro vivere, chiuso in un orizzonte definito e presuntuosamente conosciuto e noto.

Non c’è nulla che immediatamente scaldi il cuore, che faccia appassionare il nostro giorno. Si riduce ogni cosa a istanti consumati velocemente: un innamoramento fugace, una storia effimera, il pullover nuovo o le scarpe all’ultima moda,…

 E allora il nostro Natale si riduce ad uno sguardo fuggevole di tenerezza al bambino che sorride sulla paglia, s’attiva il profumo e la nostalgia della nostra infanzia e s’accende la commozione della memoria sopita all’apprestare della tavola imbandita.

Il Natale cristiano non è una fuga dal mondo, è l’arrivo, improvviso e inaspettato, gratuito del Figlio nel mondo. E’ cuore lacerato dalla troppa attesa, pulsante di desiderio intenso di una vita autentica.

La fede che grida al cuore NON C’E’ NULLA CHE BASTI, NON C’E’ NULLA D’APPAGANTE
QUANTO LA PROMESSA SOPRAGGIUNTA GRATUITA E FATTA CARNE DI PIENEZZA.

La questione è in questi termini: non  se Dio viene, ma se io lo riconosco. Non se esiste un dio ma, posto che ci sia, se c’entra con la mia vita o no.

Tutto parte da un interrogativo che di tanto in tanto, in stagioni propizie, s’attizza in fondo al cuore: “cos’è quest’insoddisfazione che sento, cos’è questo desiderio di pienezza a cui non so dare nome, chi è questo qualcuno che mi cerca a cui sfuggo perché mi sento cercato…   Sei Tu Colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”

Indecente e persino sprezzante la domanda in bocca a Giovanni Battista, il precursore dell’Atteso che in prigione davanti alla morte è assalito dal dubbio.

Si sta giocando tutto: la verità della sua vita di profeta, ma ancor più la verità delle promesse di Dio. La speranza di Giovanni è traballante e incrinata … “Tutto qui? Aspettavamo un Messia che cambiasse la faccia della terra o per lo meno la nostra tribolazione in gioia… E Dio ci manda un Bambino… in una stalla... A che serve un bambino che ha bisogno di tutto?”
Natale non è una festa facile: nella sua luce tremolante oscilla la nostra fede e la nostra speranza.

Corre sul filo rischioso della delusione, perché tentiamo di ridurre Dio alle nostre attese, ai nostri bisogni  riducendolo a risposta scontata e per questo ormai inascoltata e, tra le tante, inutili.

Così ci perdiamo il dono che Lui ci fa. E’ vero: è solo un piccolo Bambino che ci viene dato, un Figlio di donna. Una piccola creatura da  contemplare senza essere accecati dalla sua luce.
Una sorpresa per la nostra vita, dono sorprendente ed unico. Dono che sa rinnovare l’esistenza e riempire il cuore dell’uomo.     Basta ascoltare e accogliere il dono, lasciarsi abitare.

lunedì 26 settembre 2016

lettera ad una coppia in crisi



“Ti amo così tanto che sono infelice”, “ci amiamo ma…stare insieme è un inferno”, “ci vogliamo bene ma…”, “…la nostra fede salverà il nostro matrimonio..”, “..in fondo non è la felicità quella che è importante…”

E’ così importante la felicità che, il papa, mica un peccatore qualunque, papa Francesco dopo averci fatto dono della Evangelii gaudium, ci regala Amoris lætitia: dopo la gioia del vangelo, la gioia dell’amore in famiglia (Esortazione apostolica postsinodale sull’amore nella famiglia”)!

Per dire Evangelii gaudium Francesco scrive in spagnolo La Alegria del Evangelio per dire Amoris lætitia scrive ancora La Alegria del Amor. Quanto all’incipit delle due esortazioni apostoliche, dunque, gaudium parrebbe equivalere a lætitia: come «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù», così «la gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa».

Sta di fatto, però, che sia in Evangelii gaudium che in Amoris lætitia non si parla solo di “gioia”, ma anche di “felicità”. Non è, anzi, esagerato affermare che Amoris lætitia è una stupenda lode alla bellezza e alla felicità dell’amore in famiglia.

Cari A. e  L. : bisogna avere il coraggio e l’umiltà di chiamare le cose col loro nome.   Accontentarsi non piace a nessuno. “Non siamo stati voluti per le cose piccole, ma per le grandi” sono parole sempre di un altro peccatore non qualunque: Papa Benedetto XVI.

Per prospettare una fede capace, anche nelle difficoltà della vita, di rendere felici, Amoris lætitia fa ricorso 52 volte al termine “gioia” e 23 volte al termine “felicità” o all’aggettivo “felice” (declinato, a volte, al plurale “felici”). Quasi a dire che, per annunciare il Vangelo della famiglia – «gioia che riempie il cuore e la vita intera» (n. 200) occorre fare esperienza della gioia vissuta.

L’amore riconosce il diritto che ciascun essere umano ha alla felicità: amare una persona e guardarla con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto “perché possiamo goderne” (1Tm 6,17), significa godere intimamente del fatto che lei possa essere felice (n. 96). E’ sempre il papa a ricordare l’impegno alla felicità.

Permettetemi d’entrare nella vostra vita, quasi in punta di piedi: per il bene che vi voglio, per il bene che mi volete, in quell’abbraccio di un pezzo di cammino nel nostro gruppo per oltre cinque anni.

Vi ho conosciuto già martoriati, ancora vi state macerando, logorando, estenuando.

Siete rimasti inghiottiti sempre in un buco nero dentro del quale, soli, si annaspa e si muore.

Avete sprecato tempo, energie…avete accumulato rancori e frustrazioni…avete seminato dispiaceri, delusioni, tensioni.

Uno sguardo severo l’uno sull’altro, a gettarvi colpe e croci, a fare del vostro vivere una pesante gabbia regalandovi sofferenza, elargendovi inutili dolori.

Che voi non vogliate più far parte del nostro gruppo mi spiace. Il rimanervi penso che sia, almeno per voi ora, un’occasione, forse l’unica, per trovare volti amici che ancora tengono a voi, che sanno la sofferenza che portate, che hanno visto la vostra “nudità” senza infingimenti e disposti ancora ad ascoltarvi e, se solo lo vogliate, a tentare di darvi un appoggio.

Temo però che la vostra rigidità vi impedisca di tentare. 

Indipendentemente dal gruppo, ciò che mi rincresce alla radice è il considerare che qui c’è in gioco la vostra vita: non un simulacro di relazione ma la costruzione di una gioia che si fa incontro e accoglienza l’uno per l’altro. Che si fa abbraccio e evidenza di bene da trasmettere e passare carnalmente al vostro piccolo tesoro.

Non avete da dimostrare quanto cristiani siete e quale fede vi stia alimentando. Al di là della maschera rimane il volto scavato dalle lacrime e dalla desolazione.

 La tristezza scolora gli occhi.

La prova della fede è la testimonianza della gioia, della felicità.  O il matrimonio è un fiacco compromesso di soddisfazione, o è il mezzo per raggiungere il proprio compimento e quindi la maggior felicità possibile. 

Sarà anche per questo che siamo così poco testimoni infarciti come siamo di un’immagine di cristianesimo doloristico, più prossimo allo stoicismo, cupo, fatto d’interpretazioni moralistiche sacrificali, catene per imbrigliare la libertà e la dinamica del desiderio più che ali a favorire percorsi di maturazione positiva. 

Possiamo essere l’uno per l’altro via e strumento per la libertà oppure artefici di continua sofferenza.  Fatevi aiutare, regalatevi un cammino di liberazione. Vi attende un esodo.

Siate ragionevoli, vogliatevi bene. Perdonatevi, gettate maschere e regalatevi libertà. Vi meritate gioia, gettate zavorre e lacci. 

Un abbraccio. 

P.S.

Oggi son rientrato presto dall’ufficio. Mentre vi scrivo mio figlio è rincasato dal centro estivo, le pentole sul fuoco già si animano, mia moglie ha varie riunioni e rientrerà più tardi.  Le ferite del mio passato le conoscete.  Ora aspetto una donna che mi ha accolto e mi desiderava per come ero –   per come sono e (si spera) per come sarò – anche più ingrassato e rompiballe. Un uomo che ancora riesce a scriverle: “Nulla, non c’è nulla di noi che andrà perduto, per tutta l’eternità. Sei troppo bella tu per andare a scomparire. E il per sempre sotto il segno della felicita, nel già e non ancora, apre all’attimo dell’infinito”.



giovedì 8 settembre 2016

semplicità delle cose



Quante persone ho incontrato nelle settimane trascorse in vacanze. Quanto ho ascoltato e imparato e quanto non sono riuscito a dire, ad esprimere bene, a farmi intendere.  Bambini, adulti, nuovi incontri e vecchie amicizie. Sorprese, doni inattesi. Gesti inaspettati. Accoglienze impreviste. Offerte di ospitalità con un sorriso naturale senza chiederti se sei un santo, un onestuomo o un brigante,..quanta gente ho incontrato...

Immergendomi in odori e sapori antichi in un mare dove anche gli dei si bagnavano poiché attaccato al cielo … abbandonando parole logore e immagini ancor più usurate dei mass media anche senza leggere Camilleri e l'omelia domenicale di Scalfari o un pistolotto di Gramellini ... e poi c'è la crisi, venti di guerra e immigrati, terrorismo e … e terremoto e ancora emergenze e drammi e … ognuno si arrangia come può. Tante parole, vane, buone, arroganti, semplici, umili, alte, basse...può andar bene così? Va bene così. Accontentandosi, adattandosi, cercando spazi di vita e offrendone,…



E i miei occhi vanno ora al cielo bello e azzurro, ad un mare che più mare non si può, ai profumi ovunque dipanati di agave e origano, di oleandri in fiore e menta; l’attraversare di spiagge assolate e solitarie, in lontananza l’Etna e poi più in giù Vulcano fumigante … un accarezzare la stella marina e conchiglie spiaggiate … una puntura al piede di ricci marini.. i tuffi di mio figlio e le sue risate … Segesta, Selinunte, i templi di Siracusa,… 

 Paesaggi brulli e terra grassa ravvivata da abbondanti viti, vini stupendi e tavole imbandite  “comediocomanda”  terra rivoltata dagli aratri, in lontananza pescherecci rientrano... colori diversi... forti e contrastanti.



Sempre il contrasto mi stupisce, mi fa nascere dentro un sorriso... e chissà se c'entra con tutto il resto, con la radio che parla, con le tortore che nel giardino tubano, con mio figlio qui accanto a me sul grande tavolo in sala a leggere e fare i compiti … con le persone incontrate, con quelle perdute, se c'entra con me...con te...col giardino incolto su cui dovrò sudare nei prossimi giorni … sui menù da preparare per amici e parenti … ascoltando forever  young di Dylan…



Il compito arduo, l’esercizio più difficile  a cui mi sento chiamare è di riuscire a vedere  più a fondo, dentro, oltre...



C’è un sorriso dentro che chiama...dopo aver percepito, anche solo per un breve istante, che la realtà non tollera a lungo dubbi e posizioni indifferenti, oscillazioni scettiche, pessimismi mimetizzati o facili e cupi rimandi.



La semplicità delle cose, la naturalità del vivere, la gratuità della bellezza … del sorridere profondo di ogni cosa sotto questo cielo … mi pare conquistino anche lo spirito più inquieto di disillusioni.






lunedì 30 maggio 2016

Crisi, separare e scegliere




Il termine “crisi”, di derivazione greca, in origine indicava la divisione, l’atto del separare. Il verbo era soprattutto utilizzato con riferimento alla trebbiatura, cioè all’attività conclusiva nella raccolta del grano, consistente appunto nella separazione della granella del frumento dalla paglia e dalla pula.
Da qui derivò tanto il primo significato di “separare”, quanto quello traslato di “scegliere”.
E’ esperienza quotidiana di ciascuno di noi: per scegliere si fa un’operazione di distinzione, si separa.
Scegliere implica un preferire, un anteporre, un optare, un prediligere.
Dunque siamo perennemente nella condizione di scegliere e separare; siamo permanentemente portati verso la crisi.
Siamo chiamati, a volte con sofferenza, a trattenere ciò che vale e scartare ciò che riteniamo non abbia pregio o valga meno. Stabiliamo, attraverso categorie di giudizio e criteri di merito, valutazioni che ci orientano nelle scelte che poi ci guidano. Il criterio etico, morale, religioso,… di opportunità e convenienza sociale, economica…
L’uomo è chiamato costantemente a scegliere. L'immagine delle due vie è un motivo ricorrente nella Bibbia, dove è sinonimo di scelta, di decisione vitale e morale. In gioco c’è la vita, il volto della propria coerenza e identità; lo spessore e la fedeltà  all’esistenza sotto il cielo dei viventi.
"La via dei giusti è come la luce dell'alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio. La via degli empi è come oscurità" (Proverbi 4,18-19). Significativa è questa dichiarazione del Deuteronomio: "Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e la morte la benedizione e la maledizione: scegli dunque…" (30,15.19).
Le due strade sono spesso dipinte a colori vivaci attraverso un'altra simbologia di tipo vegetale-agricolo.
In uno scenario desolato e soleggiato come quello palestinese un albero rigoglioso e carico di frutti, lungo una corrente di acqua viva, diventa un emblema espressivo di letizia e di benessere e, quindi, di giustizia ricompensata. Questa immagine era già stata usata da Geremia: "Benedetto l'uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. Egli è come un albero piantato lungo l'acqua, verso la corrente stende le sue radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell'anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti" (17,7-8).

Alla solidità dell'albero, si contrappone l’irrilevanza della pula, secca, inconsistente. Una lunga tradizione biblica equipara l'empietà a questa realtà inutile e impalpabile. Addirittura nei Vangeli l'immagine diventa l'annunzio del giudizio di Cristo fatto dal Battista: "Egli ha in mano il ventilabro (Pala di legno usata dai contadini per liberare il grano dalla pula) per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula la brucerà con fuoco inestinguibile" (Luca 3,17).
E’ urgente allora, nell’epoca ritmata da scelte e separazioni, educarci (ed educare) costantemente alla crisi; entrarvi e usare tutto il discernimento di cui siamo capaci fino a cogliere un suono più profondo di là dal rumore della vita normale. Incoraggiandoci ad andare oltre il frastuono di chiacchiere vane in un tempo da riempire sciupandolo.
E cercare, fino a questuare quel dono di vedere – attraverso le apparenze e al di là di esse – il profondo legame di tutte le cose, in Dio.