Sono anni che
qualsiasi pensiero mi agita nel cuore, ogni lettura e incontro fatto, ogni
evento che mi ha regalato emozioni forti lo annoto su fogli di carta volanti o
su un’agendina che quasi sempre tengo nella tasca o nella borsa. "Non bisogna essere perfetti per
cominciare qualcosa di buono". Recupero la citazione
dell’abbè Pierre all’indomani della tre giorni romana; una tre giorni fitta e
bella, piena e ricca di suggestioni.
D’immagini e parole cariche di stimoli.
L’anniversario delle ACLI (un’associazione settantenne
ma ancora spavalda e provocante come un’adolescente), festeggiato con il Papa
in udienza con oltre settemila aclisti; la beatificazione del vescovo Oscar
Romero, la gita a Roma e la visita al Colosseo con mio figlio e mia
moglie. Le parole del Papa, le
esperienze proposte insieme alla narrazione della storia delle ACLI, la vita e
la morte di monsignor Romero, la festa di popolo, i canti…
Considero la fortuna, la grazia di vivere questi
momenti; di respirare una storia bella, fatta di persone che l’hanno
attraversata lasciando cose buone, proposte audaci, granelli di bene.
Considero grazia e fortuna avere incontrato le
ACLI; mi ritrovo nei gesti e nel pensiero che accompagna da settant’anni il
cammino di generazioni di donne e uomini che hanno seminato speranza, che hanno
contribuito a vivere con e nella giustizia, confidando nel Signore e
abbeverandosi alla grazia della fede.
Non nascondo la piccolezza, a volte la meschinità
di chi abita la storia, omuncoli e faccendieri ne sembrano i padroni (ma mi
pare che ciò sveli ancor di più la presenza, umile e rispettosa, di Dio).
Trattengo un pensiero imbastito nell’aula Paolo
VI in Vaticano, sollecitato da non ricordo quale immagine o parola catturata.
Vi sono volte in cui il desiderare di far bene
ciò che si fa è passione, è piacere, soddisfazione intima e piena. Alcune volte
è boria e pretesa, più una sfida con sé stessi, forse per dare prova di qualcosa,
a sè o agli altri, all’intero universo e a Dio stesso. E genera affanno.
Così al primo segnale di ansia, col tempo, ho
imparato a ridurre la velocità. È un
avvisaglia precisa, nitida; mi dice che sto correndo troppo, che sto chiedendo
troppo. Così rallento sino a fermarmi avendo ben chiaro che se la pretesa della
perfezione, quest’ansia di prestazione mi
aggredisce allora non è più un piacere fare quel che faccio, immergermi nella
concretezza del vivere. Diventa un modo per difendermi dalla paura di fallire e
di sentirmi/mostrarmi fragile.
Allora penso che il perfezionismo sia l’avversario
della concretezza, di quell' arte attraverso cui a volte riesco a districare i
miei grovigli, a trasformare i miei pensieri in oggetti, a creare dal nulla
trasferendo su un foglio un mio pensiero, una mia emozione. A dedicarmi in modo disinteressato, quasi
distaccandomi da me e rivolgendo ascolto e attenzione agli altri.
La perfezione è l’ opposto di quell’energia divina
che abita in ciascuno di noi, come lo sconforto,
la resa e la scetticismo. Sono le due facce della stessa medaglia. Dapprima ci
si gonfia, ci si esalta, si vede solo se stessi, poi arriva l’ansia con i suoi
capogiri che stordendoti fanno cadere giù, deprimendoti, facendoti sentire un
fallito, un incapace che mai riuscirà a fare qualcosa di buono.
Capita di sentirsi dei buoni a nulla e degli
inetti: fa parte di quella fragilità che a volte ci spaventa così tanto, al
punto da opprimerci.
Occorre temere invece quello strano appagamento
che avvolge, senza che se ne sia consapevoli, in cui si crede di aver capito
tutto e poter spiegare ogni cosa articolando
ragionamenti, argomentando e pensando di continuo.
Ma ogni cosa rimane lì. Non le tocchi nemmeno. Così attaccati da quel nemico dalle due facce, si diventa tuttologi, onniscienti;
pronti a distribuire critiche, colpe e croci. Gli altri sbagliano sempre e se le
cose dipendessero da te tutto sarebbe migliore, perfetto.
E tutto rimane ancora lì.
Se non scatta in ciascuno anche un barlume di
concretezza si deve temere. Agire, spingersi e rallentare... far qualcosa di
buono, riconoscere di poter fallire e accettare di sbagliare… sentirsi piccoli
e fragili e malgrado ciò continuare ad osare, a crederci, a sentirsi grandi:
due facce della stessa medaglia, ma che non si combattono più, che accettano di
camminare insieme.
Col tempo ho riconosciuto che la concretezza è un
faticoso equilibrio. Si deve imparare ad utilizzare le proprie ansie per
rallentare, non per accelerare, riconoscere ed utilizzare i propri errori per
imparare e non per punirsi, impiegare i
momenti di fatica per riconoscere di avere bisogno di un aiuto e non per
scoraggiarsi.
Allora si intuisce che si può ricominciare.
Con umiltà e coraggio riconoscere che lo spirito,
l'energia divina in noi, cammina sulle increspature dell'imperfezione, tra le
pieghe dei nostri limiti e si incarna in maniera delicata ed opportuna ogni
volta che, nella distanza tra il dire e il fare, abbiamo l'audacia e la baldanza
di ricominciare.
Anche questa è
parte della storia delle ACLI, è parte di un cammino di fede di uomini tra
gli uomini, è quello che mi ha detto il
Papa, o così mi è sembrato di capire.
Ed è in mezzo all’esaltazione di credere di poter
fare tutto e l’ansia di avvertirsi incapaci, si muove l’equilibrio della
concretezza: che non ci chiede di essere perfetti, quasi enti completi e
realizzati, ma di rimetterci in gioco
scrutando i segni dei tempi e interpretandoli alla luce della Parola.
Di scommettere
di nuovo nel qui ed ora.
Utilizza le tue ansie
per rallentare,
i tuoi errori per
imparare e i tuoi
momenti di fatica per
chiedere una mano