“Ti amo così
tanto che sono infelice”, “ci amiamo ma…stare insieme è un inferno”, “ci
vogliamo bene ma…”, “…la nostra fede salverà il nostro matrimonio..”, “..in
fondo non è la felicità quella che è importante…”
E’ così
importante la felicità che, il papa, mica un peccatore qualunque, papa
Francesco dopo averci fatto dono della Evangelii gaudium, ci regala Amoris
lætitia: dopo la gioia del vangelo, la gioia dell’amore in famiglia (Esortazione
apostolica postsinodale sull’amore nella famiglia”)!
Per dire Evangelii
gaudium Francesco scrive in spagnolo La Alegria del Evangelio per dire Amoris
lætitia scrive ancora La Alegria del Amor. Quanto all’incipit delle due esortazioni
apostoliche, dunque, gaudium
parrebbe equivalere a lætitia:
come «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro
che si incontrano con Gesù», così «la gioia dell’amore che si vive nelle
famiglie è anche il giubilo della Chiesa».
Sta di
fatto, però, che sia in Evangelii gaudium che in Amoris lætitia
non si parla solo di “gioia”, ma anche di “felicità”. Non è, anzi, esagerato
affermare che Amoris lætitia è una stupenda lode alla bellezza e alla
felicità dell’amore in famiglia.
Cari A. e L. : bisogna avere il coraggio e l’umiltà di
chiamare le cose col loro nome. Accontentarsi
non piace a nessuno. “Non siamo stati voluti per le cose piccole, ma per le
grandi” sono parole sempre di un altro peccatore non qualunque: Papa Benedetto
XVI.
Per
prospettare una fede capace, anche nelle difficoltà della vita, di rendere
felici, Amoris lætitia fa ricorso 52 volte al termine “gioia” e 23 volte
al termine “felicità” o all’aggettivo “felice” (declinato, a volte, al plurale
“felici”). Quasi a dire che, per annunciare il Vangelo della famiglia – «gioia
che riempie il cuore e la vita intera» (n. 200) occorre fare esperienza della gioia vissuta.
L’amore
riconosce il diritto che ciascun essere umano ha alla felicità: amare una
persona e guardarla con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto “perché
possiamo goderne” (1Tm 6,17), significa godere intimamente del fatto che lei
possa essere felice (n. 96). E’ sempre il papa a ricordare l’impegno alla
felicità.
Permettetemi d’entrare nella vostra vita, quasi in punta di piedi: per il
bene che vi voglio, per il bene che mi volete, in quell’abbraccio di un pezzo
di cammino nel nostro gruppo per oltre cinque anni.
Vi ho conosciuto già martoriati, ancora vi state macerando, logorando,
estenuando.
Siete rimasti inghiottiti sempre in un buco nero dentro del quale, soli,
si annaspa e si muore.
Avete sprecato tempo, energie…avete accumulato rancori e
frustrazioni…avete seminato dispiaceri, delusioni, tensioni.
Uno sguardo severo l’uno sull’altro, a gettarvi colpe e croci, a fare del
vostro vivere una pesante gabbia regalandovi sofferenza, elargendovi inutili
dolori.
Che voi non vogliate più far parte del nostro gruppo mi spiace. Il
rimanervi penso che sia, almeno per voi ora, un’occasione, forse l’unica, per
trovare volti amici che ancora tengono a voi, che sanno la sofferenza che
portate, che hanno visto la vostra “nudità” senza infingimenti e disposti
ancora ad ascoltarvi e, se solo lo vogliate, a tentare di darvi un appoggio.
Temo però che la vostra rigidità vi impedisca di tentare.
Indipendentemente dal gruppo, ciò che mi rincresce alla radice è il considerare
che qui c’è in gioco la vostra vita: non un simulacro di relazione ma la
costruzione di una gioia che si fa incontro e accoglienza l’uno per l’altro.
Che si fa abbraccio e evidenza di bene da trasmettere e passare carnalmente al
vostro piccolo tesoro.
Non avete da dimostrare quanto cristiani siete e quale fede vi stia
alimentando. Al di là della maschera rimane il volto scavato dalle lacrime e
dalla desolazione.
La tristezza scolora gli occhi.
La prova della fede è la testimonianza della gioia, della felicità. O il matrimonio è un fiacco compromesso di
soddisfazione, o è il mezzo per raggiungere il proprio compimento e quindi la
maggior felicità possibile.
Sarà anche
per questo che siamo così poco testimoni infarciti come siamo di un’immagine di
cristianesimo doloristico, più prossimo allo stoicismo, cupo, fatto
d’interpretazioni moralistiche sacrificali, catene per imbrigliare la libertà e
la dinamica del desiderio più che ali a favorire percorsi di maturazione
positiva.
Possiamo
essere l’uno per l’altro via e strumento per la libertà oppure artefici di
continua sofferenza. Fatevi aiutare,
regalatevi un cammino di liberazione. Vi attende un esodo.
Siate
ragionevoli, vogliatevi bene. Perdonatevi, gettate maschere e regalatevi
libertà. Vi meritate gioia, gettate zavorre e lacci.
Un
abbraccio.
P.S.
Oggi son
rientrato presto dall’ufficio. Mentre vi scrivo mio figlio è rincasato dal
centro estivo, le pentole sul fuoco già si animano, mia moglie ha varie
riunioni e rientrerà più tardi. Le ferite
del mio passato le conoscete. Ora
aspetto una donna che mi ha accolto e mi desiderava per come ero – per
come sono e (si spera) per come sarò – anche più ingrassato e rompiballe. Un
uomo che ancora riesce a scriverle: “Nulla,
non c’è nulla di noi che andrà perduto, per tutta l’eternità. Sei troppo
bella tu per andare a scomparire. E il per sempre sotto il segno della
felicita, nel già e non ancora, apre all’attimo dell’infinito”.