domenica 27 novembre 2011

Cerchiamo qualcuno che ci ami

La solitudine, il senso di smarrimento, persino l'angoscia e la disperazione. La rabbia urlata. C'è una mescolanza di paura e impotenza, di non senso della vita. A volte cè la rincorsa al cinismo, al potere, alla violenza.  Eppure cerchiamo qualcuno che ci prenda per mano. Che ci accompagni. Che ci ascolti e ci incoraggi. Che ci voglia bene e ce lo sappia trasmettere. Che si chini sul nostro bisogno, che ci sorregga sussurrandoci "non ti preoccupare, sono qui vicino a te". Cerchiamo qualcuno che non ci affossi col giudizio negativo; che sia contento quando ci vede e che si preoccupa se ci allontaniamo. Persino che ci venga a cercare. Cerchiamo qualcuno che ci dia da bere per la troppa sete accumulata, che spezzi il pane sino anche a condividere il nostro dolore, la nostra fatica. Cerchiamo qualcuno che ci scaldi il cuore con lo sguardo, ci faccia fremere con la sua parola. Cerchiamo qualcuno che ci renda capaci di libertà, di osare. Sino a permetterci di sbagliare accogliendoci sempre senza condizioni.

Propongo  l'intervista a Gabriella Caramore, a cura di Franco Marcoaldi, comparsa su la Repubblica del 15 Novembre scorso.
  
"Perché ai credenti servono gli esempi e non più i dogmi"

Senza tema di sbagliare, Uomini e Profeti di Radio Tre, che Gabriella Caramore conduce con
appassionata competenza da ben diciotto anni, è un vero e proprio programma di culto. Tra i molti
meriti di questa trasmissione c'è anche quello di offrire una sorta di radiografia ravvicinata e
costante della spiritualità e della religione, sia in Italia che nel mondo. Perciò è quanto mai
opportuno l'incontro con chi, come Caramore, affronta quotidianamente il problema dell'autorità di
Dio, delle Sacre Scritture, della Chiesa. E da qui potremmo partire. Cercando di delineare una prima
mappatura generale sulle diverse modalità di accostarsi alla figura dell'autorità in ambito religioso.
«Focalizzando l'attenzione sull'Occidente, ci troviamo di fronte a un quadro molto articolato, se non
addirittura frantumato. Viviamo in società sempre più secolarizzate, ma che conoscono il costante
innesto di nuove comunità religiose. Così, da un lato siamo in presenza di quei tradizionalisti
cristiani, o islamici o di altre appartenenze, i quali continuano a riconoscersi nelle autorità che da
sempre contrassegnano il loro mondo e la loro fede: si tratta di realtà magari molto estese, ma
comunque residuali. Dall'altro monta invece, sempre più forte, una domanda di libertà, di ricerca
spirituale individuale, che spesso e volentieri stenta a trovare figure autorevoli capaci di indicare il
percorso lungo cui muoversi. Questa divaricazione si moltiplica in un mondo sempre più composito
e quindi si moltiplica anche una sensazione di smarrimento».
In Italia, però, c'è la Chiesa cattolica. Con tutto il suo immenso peso.
«Fatte salve le diverse sensibilità presenti all'interno della gerarchia ecclesiastica, il volto autoritario
con cui la Chiesa si mostra è ancora forte. Ma anche all'interno del mondo cattolico si avverte una
nuova esigenza di libertà. È una realtà sotterranea, ancora priva di voce e di rappresentanza
pubblica. Però esiste. C'è tutto un pullulare di pensieri e iniziative che non riconoscono più l'autorità
ecclesiastica come un'autorità indiscussa. E la cercano altrove, nello studio della Bibbia, nel
tentativo di vivere una vita maggiormente improntata al Vangelo. D'altronde: come puoi definirti
cristiano, se non ti abbeveri alla fonte prima della cristianità?».
La Chiesa dovrebbe venire soltanto dopo.
«Dovrebbe. Ma storicamente è accaduto, per passaggi che non stiamo qui a ricostruire, che la parola
della Chiesa ha finito per sovrapporsi a quella del Vangelo. Per custodire se stessa e la sua storia, la
Chiesa si è in parte sostituita all'autorità del Vangelo».
Se l'autorità vive anche di distanza e mistero, non v'è dubbio che la Chiesa parta
avvantaggiata.

«A meno che la distanza e il mistero non diventino eccessivi. Se ci si distacca troppo dalla vita
comune e si utilizza un linguaggio troppo lontano da quello della gente, si finisce per perdere
credibilità. È difficile parlare di accoglienza, vivendo nel chiuso dei palazzi. Difficile parlare di
povertà, se poi non la si vive. Detto questo, so bene che il credente non ha sempre la maturità
necessaria ad accostarsi in prima persona, autonomamente, alle Sacre Scritture. Talvolta è una
persona semplice, che ha bisogno di strumenti semplici. E qui torna d'attualità la temibile lezione
del Grande Inquisitore di Dostoevskij, che contrapponendosi al Cristo che aveva offerto al popolo
una libertà impossibile da raggiungere, decide al contrario di colmargli il ventre, facendolo passare
"all'allegria e al riso, alla gioia spensierata e alle allegre canzoncine infantili. E così – dice - noi li
renderemo felici"».
È la linea d'ombra rappresentata dall'abisso della libertà.
«Però non si può abusare troppo dell'innocenza del credente "bambino". Come si fa a tenere alto il
livello teologico del discorso e poi lasciar correre sui miracoli di Padre Pio? Senza mai raffreddare,
senza mai contenere un miracolismo dilagante? Cosa dice il Santo Inquisitore? Io sì che so sedurre
il popolo e attrarlo a me. Lo faccio attraverso il miracolo, il mistero e, per l'appunto l'autorità. Ora,
la Chiesa, forse, dovrebbe essere più accorta e coerente con le parole che vuole conservare e
tramandare. Altrimenti, continuerà magari a sedurre le masse e a intrattenere rapporti con la
politica, ma perderà in autorevolezza presso i credenti "adulti"».
Veniamo alla parola di Gesù.
«Di lui si dice spesso nei Vangeli: parlava con autorità, agiva con autorità, leggeva le Sacre Scritture
con autorità. Non come gli scribi. Con autorità, io credo, in questo caso vuol dire "con coerenza",
"in verità", perché gesti, parole, cuore e intenzione, in Gesù procedono insieme. Quale lezione
dobbiamo trarne? Che l'autorità – l'autorevolezza – viene riconosciuta come tale, se propone parole
e azioni fondate sulla convinzione, la coerenza, la verità e il rischio».
Quanto invece all'autorità che emanano i testi, le Sacre Scritture?
«Ama la Torah più di Dio, diceva Lévinas, a rimarcare l'assoluta centralità del Testo. Ma proprio gli
ebrei ci hanno insegnato che anche di fronte alla parola della Legge si può e si deve esercitare la
propria intelligenza, attraverso l'interpretazione di ogni singola pagina, di ogni singolo versetto, di
ogni singola lettera. Il credente ebreo è – o dovrebbe essere - libero nell'interpretazione, così come
lo sarà poi il cristiano che risponde all'invito dell'apostolo Paolo: "siete stati chiamati a libertà".
Quanto a Lutero, rifonderà la libertà cristiana nel momento in cui la Chiesa sembra essersene
dimenticata. Molti gruppi di cattolici, oggi, è questo che rivendicano. La possibilità di leggere e
interpretare liberamente le Sacre Scritture. È importantissima la tradizione, ma se la si tramuta in
norma, in dogma, la si snatura. Perché la tradizione è calata nel tempo e dunque soggetta a
un'ermeneutica infinita. Spesso, ascoltando la musica, mi vien da pensare che in fondo i musicisti
procedono allo stesso modo. Interpretano un testo, certo rispettandolo e conoscendolo con minuzia
filologica. Ma lo interpretano. Dopodiché, se sei troppo ligio, verrà fuori una cosa piatta, fredda. Se
sei eccessivamente arbitrario, verrà fuori una cosa strampalata. Bisogna metterci cuore, cervello e
abilità tecnica, per raggiungere il perfetto equilibrio tra rispetto del testo e interpretazione
soggettiva. Ecco, lo stesso accade, credo, leggendo la Bibbia».
Resta che quel testo è il fondamento della verità e ad esso si deve obbedienza.
«Anche qui, con il necessario discernimento critico. Gli esegeti contemporanei ci ricordano che la
maggior parte delle affermazioni storiche contenute nella Bibbia non rispondono al vero. Ma è vera
quell'intenzione, è vera l'istanza di liberazione dell'uomo che il Libro ci propone attraverso l'idea di
Bene e di Dio. Naturalmente non è l'unica storia possibile, ma noi ci riconosciamo in essa perché ne
riconosciamo il linguaggio. In tal senso, è perfetta la definizione di Simone Weil: ogni religione è
l'unica vera, come unico vero è quel paesaggio, quel quadro, il volto della persona amata».
Quanto invece all'obbedienza?
«Ob-audire vuol dire ascoltare. In un versetto fin troppo citato dei Salmi è scritto: "Dio una parola
ha detto, io due ne ho udite". E in un altro passo del Deuteronomio si afferma: "oggi ho posto
davanti a te il bene e il male, la vita e la morte. Tu scegli la vita". Ovvero: io ti dico cosa devi fare, a
te scegliere di farlo. Dunque la tua libertà non è violata dall'obbedienza».
C'è un punto in cui credenti e non credenti possono trovare lo stesso fondamento di autorità?
«Esiste un passo di Dietrich Bonheffer che amo molto e che dice più o meno così: la tradizione
cristiana mi ha insegnato a guardare il mondo dal basso. L'autorità politica, religiosa, morale di oggi
si presenta come un guscio vuoto? Ebbene, io la cercherò nella tradizione e contemporaneamente
nel volto dell'altro che soffre. Perché sia un testo autorevole del passato, sia gli occhi di un bambino
che ha fame, mi trasmettono lo stesso messaggio: mi invitano ad agire e mi indicano come farlo. Il
mio compito sarà quello di offrire una risposta all'altezza della domanda che mi viene rivolta».

martedì 22 novembre 2011

Grazie


Ho un anno di più.
Domani la data mi ricorda il giorno della mia nascita ormai oltre i cinquanta. 
Cinquantanni e oltre di legame con la vita, di avvinghiamento alla terra. Di passioni, ubriacature, amori, sconfitte brucianti. Non mi sono risparmiato.  Non mi sono sottratto alla lotta. Ho perso e ho vinto, sono caduto e mi sono rialzato.  Ho vissuto. Ebbene si, mi sembra di poterlo dire. Rifarei molto potendo tornare indietro; non tutto. Mi risparmierei parecchio dolore sparso e molte sofferenze subite. Ma ormai è andata. Mi rimane tutto il tempo del qui ed ora. Non so oltre/altro. 
Non mi è dato sapere. Scommetto e voglio puntare ancora su di me, sulla vita, su chi mi ama. Scommetto su Dio. 
Credo, avverto che non c’è diversità tra il mistero di Dio e quello dell’uomo; penso sia un unico profondo mistero. 
Da penetrare, da vivere.
Per anni ho rincorso Dio dietro immagini, idee.    Persino pensando d’inseguirlo meglio e più da vicino indossando panni non miei. Da qualche tempo non lo cerco più inseguendolo sulle nuvole ma nel cercar di essere me stesso.   Semplicemente. 
In fondo se non c’è l’uomo non c’è Dio.
Quando ero in comunità ai miei ragazzi dicevo sempre “che cos’avete da perdere?”.  
Oggi sento di dirlo a me: “In fondo cos’ho da perdere?”. Quando hai vissuto un bel pezzo di vita, quando hai rischiato non poco, cosa puoi perdere di più? Sul punto di perdere tutto, anche la vita, cosa altro hai di più da salvare? La mia vita và oltre la mia vita.       
Cosa può rimanere della mia vita, della nostra esistenza se non quel legame che avremo saputo tessere l’uno con l’altro? Cosa può rimanere se non la parola autenticamente umana, compassionevolmente umana che avremo saputo coltivare e donarci?  Che cosa può rimanere se non l’attenzione, l’accoglienza, la cura, l'amicizia, l'amore con i quali avremo saputo costruire, qui ed ora, pezzi d’eternità su questa terra?
Cinquantanni e oltre con rabbia e ferite, a caccia d’amore. Gratuitamente a mani piene amore ricevuto e non sempre, non bene donato.
Mi trovo da un po’ di tempo a questa parte una maggiore serenità e una gioia che fanno affiorare tra le labbra un grazie alla vita.

lunedì 21 novembre 2011

La libera parola nella Chiesa




Non è scontata la libertà di parola nella Chiesa; noi semplici fedeli laici lo sperimentiamo nei nostri ambiti di servizio, nelle parrocchie, nei gruppi di appartenenza. Ce ne accorgiamo quando, senza scomodare verità di fede, disquisiamo su argomenti che riguardano un'infinità di cose inerenti la nostra casa, la chiesa parrocchiale, come la curia diocesana o l'organizzazione di un ente ecclesiale.   Si rimane basiti, sorpresi e rammaricati, di come ci sia qualcun altro, prete o laico che sia, che subito si erige a baluardo di una pretesa verità dogmatica, fosse pure l'opportunità di acquistare una statua a grandezza naturale del santo o beato all'ultima moda. Per non parlare d'argomenti più specifici (e anche più laicamente "nostri")come il lavoro, la famiglia, la sessualità, l'educazione dei figli, l'economia,...  I più realisti del re parlano nel nome dell'assoluto, investiti direttamente dall'autorità divina, incaricati dal vicario terreno.  Allora la voce si smorza in gola, non ti senti a casa tua, libero di poter parlare. Il rischio è che la voce di alcuni  vada ad aggiungersi a quella dei tanti supini e incensanti ripetitori dell' ipse dixit. Oppure scompaia fino a  prendere le distanze dalla chiesa. Non siamo abituati, non c'è stata data possibilità, non siamo allenati ma la parola deve tornare ad essere libera, anche nella chiesa. Senza paura di anatemi e ostracismi.
A più livelli il tema della possibilità di esprimere pareri, pensieri  nella chiesa cattolica, si fa sempre più sentito ed è a firma di Aldo Maria Valli, scrittore e vaticanista ,  una bella riflessione sul blog vino nuovo.
All'autore e al blog tutta la mia simpatia.


Incapaci di discutere
Aldo Maria Valli
Perché se un laico osa esprimersi in maniera autonoma su questioni opinabili (non su verità di fede) oggi scattano da parte di altri laici l'insulto e l'intimidazione?Dopo che su Vino Nuovo ho espresso le mie perplessità circa l'uso della pedana mobile da parte di Benedetto XVI e le spiegazioni fornite dalla Santa Sede per giustificarlo, sono stato sommerso di reazioni e commenti. Mi ha colpito la violenza di molti che sono arrivati fino all'insulto e, in qualche caso, alla minaccia. Non ne sono spaventato, anche perché è da molto tempo che ricevo improperi ogni volta che esprimo liberamente qualche opinione, ma penso che sulla vicenda sia il caso di fare qualche ragionamento. Quell'articolo terminava con una domanda: voi che cosa ne pensate? Era un invito esplicito a manifestare le proprie idee. Ma se molti l'hanno accolto, molti altri hanno preferito rispondere con l'invettiva e una sorta di "scomunica". Perché?
A mio giudizio il motivo profondo sta nell'assenza di un vero e proprio dibattito intraecclesiale. Un'assenza che a sua volta deriva dalla mancanza di un'autentica opinione pubblica dei credenti cattolici.
I motivi di questa situazione andrebbero indagati con attenzione. Sono di natura storica, culturale ed ecclesiale. Con riferimento al post Concilio, ci sarebbe da ragionare su come e quanto incise il cosiddetto dissenso cattolico, fenomeno che di fatto, avendo segnato una rottura netta con la gerarchia, radicalizzò le posizioni e spaventò molti.
Ma c'è anche un problema di conformismo dell'informazione. Si preferisce riferire senza commentare, oppure si commenta in modo superficiale, oppure ancora si tende quasi automaticamente a riverire e ossequiare.
Il risultato è evidente. La mancanza di un'opinione pubblica si traduce in un grave deficit per la vita ecclesiale. Tutti gli stimoli che potrebbero venire, in particolare, dai fedeli laici sono soffocati all'origine e quando qualcuno si comporta da cristiano adulto e osa pensare con la propria testa ecco scattare la reprimenda da parte di altri laici che si ergono a giudici e a difensori d'ufficio della tradizione e dell'autorità, mentre in molti casi sono soltanto difensori dell'abitudine e del potere.
La libertà di esprimere le proprie idee senza paura è la precondizione dell'esistenza di un'opinione pubblica, ma se di fronte ai commenti più liberi scattano subito le accuse, gli insulti e l'emarginazione, come si può immaginare di avere un'opinione pubblica? Avremo piuttosto, molto più facilmente, schiere di adulatori.
Oggi alla Chiesa "manca il respiro" dicono nel loro bel libro Saverio Xeres e Giorgio Campanini.
E manca anche perché il Concilio, a quasi cinquant'anni dalla sua apertura, è sempre più dimenticato, svalutato e negletto.
Uno dei risultati più tragici di questa situazione è che si dice "Chiesa" e si pensa automaticamente a "gerarchia". Si dice "Chiesa italiana" e si pensa a "Cei" o addirittura a "presidenza della Cei". E in questo quadro il laicato è tenuto in una condizione di infantilismo culturale. Va bene, ed è accettato, fino a quando è funzionale all'istituzione. Ma se osa rendersi autonomo e pensante (e, ripeto, stiamo parlando di questioni opinabili, non di verità di fede), ecco scattare, molto spesso proprio da parte di altri laici, l'insulto, l'intimidazione, la soperchieria.
La comunicazione, all'interno della Chiesa, è ormai soltanto unidirezionale: scende dal papa e dai vescovi verso gli altri, ma dal popolo non sale nulla. O, quando sale qualcosa, il messaggio incontra tanti di quegli ostacoli e di quei disturbi da vanificare ogni tentativo.
Mancano luoghi di confronto paritario e quelli che potrebbero svolgere questo compito sono diventati megafoni della gerarchia, contribuendo così non alla formazione di un'opinione pubblica ma, al contrario, a un sempre più marcato processo di clericalizzazione.
Era il 1976 quando, al convegno di Roma su Evangelizzazione e promozione umana, si accennava a questi temi. Sono passati trentacinque anni e ci ritroviamo con un laicato non solo scoraggiato, ma ormai disabituato al confronto e quasi incapace di libera elaborazione culturale. E tutto questo proprio mentre le tecnologie ci permettono di far circolare informazioni e idee molto più ampiamente e velocemente di prima.

giovedì 17 novembre 2011

Intuizioni per mio figlio

  • Caro figlio mio, sto scoprendo che quel che chiamiamo verità (a volte con la v maiuscola, altre coincidente con Dio) non è altro che una tensione, una ricerca. A volte sembra una conquista. Ma non può essere trattenuta più di tanto nè mai è possesso esclusivo. Non è un passaggio di consegna, non rientra tra i beni d'eredità.
  • Sai mi sorprendo a voler andare a caccia di gioia...tutti i giorni.  E mi incazzo, quando alla sera, prima di coricarmi per la notte, dopo aver passato in rassegna la giornata, mi rendo conto di non aver gioito e non aver regalato, seminato gioia.
  • Spesso non mi rendo conto di godere di tanti privilegi: di essere, di conoscere, di avere, di vivere, di amare, di essere amato. Mi rattrista sapere di dare per scontato la ricchezza avuta.
  • Mi accorgo, a mano a mano che sprofondo nella vita, che davanti alle avversità, non impietrisco più dalla paura.  Non riescono a scoraggiarmi. Confido sempre nel fatto che io sono molto più grande di qualunque avversità.

lunedì 14 novembre 2011

Dio si ritira per far posto a noi

"In principio Dio creò il cielo e la terra" è l'inizio di ogni cosa, il principiare della vita, l'avvio della storia. Di ogni storia, di ogni cosmogonia, di ogni teologia. Alla domanda che genera vertigine quando siamo nati? come si è formato l'universo? quello che ci appare e noi dentro in questa manifestazione come siamo venuti? da dove e perchè? la risposta parte da da qui.
Mio figlio, sei anni, qualche sera fa, dopo aver ascoltato la storia della creazione dell'universo, ha colto un'intuizione teologica fondamentale: "Dio si ritira perchè così ha fatto posto alla creazione".   La creazione, opera d'amore,  è presentata come una grande esperienza di separazione, di distacco. Una volta separata la luce dalle tenebre Dio chiamò la luce giorno e le tenebre notte. Le acque sono riunite al di sotto del cielo e solo allora appare la terra...
Se ci pensiamo nella vita di ciascuno l'amore  è sempre un fare posto, un ritirarsi per accogliere qualcun altro (un figlio, la persona amata); è un ritrarsi, quasi un allontanarsi per permettere all'altro di esistere, di affermarsi, di dilatarsi e cimentarsi nello spazio e nel tempo.  Ami al punto di ritirarti, fino a scomparire, fino a dare (perdere) la vita. Fino a vivere con la sofferenza che quasi ti toglie il respiro nel permettere all'altro di affrancarsi da te.
E' una chiave di lettura per amare senza esercitare potere, amare per permettere all'altro di vivere senza tarpargli le ali.  Mi pare di poter dire che sia questa la logica della fede.
Colgo in ciò la contraddizione di come a volte vogliamo invece affermarci come cristiani.  Pensiamo con fierezza ad una identità costruita sulla presenza (in politica, nel sociale, nel lavoro, ...) e quindi sulla visibilità, sulla forza (numerica, di massa, di folle oceaniche,..) neppure sfiorati dall'idea di "fare posto".
Ritrarsi senza fuggire.
Essere presenti ma quasi impercettibili. In fondo ciò a cui siamo chiamati non  è quello di essere sale,  di essere lievito?

sabato 5 novembre 2011

"L’identità cristiana è un’identità di incarnazione, di umanizzazione"

Rimangono scintille nel buio, rarefatte stelle nel cielo che ancora sprigionano bagliori di luce in un presente plumbeo. 
Assetato aguzzo gli occhi, tendo le orecchie, zittisco chiacchiericci e rumori fastidiosi e inutili. Rimango in ascolto di parole autentiche, oggi rare.
Sono ancora quelle del cardinal Martini e quelle di Enzo Bianchi.


La Chiesa oggi e la tentazione di voler vincere
di Enzo Bianchi
(in “Jesus” del novembre 2011)

In una recente intervista, il card. Carlo Maria Martini, interrogato sulla situazione della chiesa oggi
e sulle sue tentazioni più manifeste, ha espresso poche ma significative parole: “Una chiesa che
vuole vincere”. Per un cristiano della mia generazione, questa tentazione non è nuova: si può anche
dire che siamo cresciuti con quell’anelito nel cuore che ci faceva desiderare una chiesa vincitrice e
per questo forte, grande, imponente...
Poi venne un’ora, inaugurata da papa Giovanni ma da tempo in maturazione in molti spazi della vita
ecclesiale: il fuoco del vangelo resta infatti sempre vivo nella comunità dei credenti, anche se
coperto di cenere. Alcuni profeti e molti cristiani anonimi e santi seppero scoprire la brace, gettare
qualche pezzo di legno e... il fuoco riprese ad ardere. La chiesa si rendeva conto della sua povertà e
delle sue mancanze, voleva rinnovarsi con un “aggiornamento” che fosse obbediente alla grande
tradizione e ai segni dei tempi, scrutati ascoltando l’umanità, la storia con le sue opacità e i suoi
faticosi cammini di umanizzazione. La chiesa reimparò ancora una volta che nella debolezza
manifesta la grazia di Dio, che nella povertà è arricchita dalla povertà di Cristo, cioè dalla sua
presenza, che quando non gode privilegi mondani la chiesa è più libera e più capace di profezia.
Per tutti noi fu una chiamata a una migrazione, a una conversione di sguardi e giudizi. Certo, in
questo scoprire la brace e riattizzare il fuoco del vangelo ci fu chi patì scandalo e inciampò, chi non
riuscì a sopportare il cambiamento e anche chi, abbagliato, si perse su strade anche generose ma non
più munite di fede e di comportamento cristiano.
Ma oggi questa stagione è passata e appaiono le vecchie e, oserei dire, abituali e normali tentazioni
delle religioni e dunque delle chiese. Così si dà tanta importanza a iniziative che non vanno certo
condannate ma che non andrebbero sopravvalutate: ormai la vita ecclesiale sembra ritmata da
“grandi manifestazioni”, “estese adunanze” in cui si cerca di unire numero, identità e potere
vincente. In verità, per un cristiano che lascia che il suo sguardo sia formato dal vangelo, non è
decisivo che a un raduno ci sia un milione di giovani né il loro numero (sovente accresciuto ad arte,
sintomo di un confidare nella grandezza delle cifre) autorizza a dire che hanno ragione o che sono
portatori di autentiche ragioni cristiane: proprio la mia generazione ha conosciuto tirannie che
radunavano giovani e meno giovani in adunate oceaniche, senza contare che ancora oggi numeri
così elevati di giovani li si possono trovare anche ai concerti degli “idoli” della musica.
Perché a noi cristiani di oggi dovrebbe accadere il contrario di quello che è accaduto a Gesù, la cui
venuta al mondo è stata riconosciuta da pochi poveri e anziani, e la cui predicazione ha avuto sì
folle di ascoltatori alle quali tuttavia egli si rivolgeva chiamandoli pusillus grex, piccolo gregge di
pochi discepoli disposti a seguirlo.
Il gusto del numero va di pari passo con la negazione della relazione, del dialogo, del confronto:
non si dimentichi che nella celebrazione dei sacramenti – che devono sempre conservare anche la
dimensione umanissima della “materia” – un numero eccessivo di partecipanti ne deforma
forzatamente la comprensione e la stessa celebrazione. In ogni caso l’identità cristiana non risiede
né in grandi raduni né in “eventi” creati a ripetizione, quasi si vivesse con fatica l’ordinarietà e il
quotidiano della fede. Dovremmo chiederci senza scetticismo dove sono tanti giovani nella veglia
pasquale, dove sono alla notte di Natale, dove sono alla domenica...
L’identità cristiana è un’identità di incarnazione, di umanizzazione, legata quindi all’incontro, alla
relazione, all’ascolto reciproco, alla volontà di camminare insieme, riconoscendo non solo l’alterità
dell’altro, ma l’alterità che abita ciascuno di noi nello svolgersi del tempo e nel mutamento dei
luoghi.
Sì, ciò che deve stupirci è la ripresa del fuoco sotto la cenere, il fuoco del vangelo che è sempre
vivo nella comunità cristiana anche se in certe stagioni pare spento. Non temiamo, riprenderà
ancora...