Gioco ancora con le mie carte, pagine della mia vita, scritte anni addietro e rese lettere indirizzate a mio figlio. Questa porta la data del 17.02.2007
Caro figlio mio, mio caro
Daris.
Per
tanti anni ho camminato a fianco del dolore. Mi sono immerso in esso
facendomene carico. Il dolore ti avvinghia, divorandoti. Sono stato testimone
oculare di tanta sofferenza. Non si può alla lunga fingere col dolore
occupandosene mentendo che non lo sia. Un educatore tra tossici e disperati
vari è un uomo intriso di sofferenza, piegato sul male altrui.
Allontanati
da chi vivendo nel (e del) dolore altrui afferma di non esserne parte, sostiene
di non entrarci. Non è vero e non può
esserlo per due motivi. Perché se lo fosse non sarebbe un uomo e poi se anche
vi riuscisse non val la pena conoscerlo. Negli ultimi tempi ho avvertito come non mai
il peso e la fatica del dolore, il travaso prepotente nella mia esistenza. Il rischio di non voler
sentire/vedere/toccare più alcun grado di tribolazione andava a spegnere
l’entusiasmo e il coinvolgimento propri di un’attività di rieducazione e cura.
L’incognita del distacco andava a sollecitare una qualche facile maschera
cinica ammantata di protettiva professionalità. Un vincolo per un portatore di speranza, un limite nella
tessitura d’una relazione umana.
A
malincuore e in modo graduale ho lasciato. Penso che vi sia in un qualche
recondito angolo della memoria personale, una sofferenza che permette d’essere
capita senza bisogno d’interpreti e mediatori. Quando ho pensato di lavorare tra
persone tossicodipendenti, vi ho aderito perchè coinvolto personalmente giovane tra i giovani della mia generazione.
Perché ho visto volti di amici e conoscenti spegnersi per la droga e stravolgersi
dalla pazzia. Mi ripenso da giovane a come incoscientemente abbia scorrazzato
rasentando la follia. Son fatto di carne e sangue; mi sono reso disponibile a
far qualcosa per questa terra e per altri suoi figli di carne e sangue. Ho
speso di mio ma ho guadagnato molto di più senza calcoli preventivi. Mi insospettisce l’idea di poter giustificare
il dolore di questa terra scomodando fati e dei. Ho smesso di rimanere
attaccato a quella sofferenza; il senso d’impotenza acuiva la distanza dal
dolore degli altri. Non credo vi sia un senso al dolore tale che lo possa
rendere apprezzabile, giustificabile, amabile. C’è forse un senso che in parte
lo rischiara rendendolo forse più sopportabile. Ma mai pienamente
comprensibile. Caro Daris, come ti ho già detto siamo fatti per la pienezza di
vita, siamo chiamati alla gioia; eppure siamo parte di una storia di patimenti.
Ho scoperto che occorre fare un cammino, fidarsi di qualcuno che il tragitto
l’abbia fatto; qualcuno che ci rassicuri quasi afferrandoci per mano e ci dica
“non avere paura, alla fine per quanto grande e spaventoso è il dolore non avrà
l’ultima parola. Non avere paura, insieme, con amore, riusciremo ad attraversare
la sofferenza della vita”.
Nada te turbe
nada te espante,
todo se pasa,
Dios no se muda;
la paciencia
todo lo alcanza;
quien a Dios tiene
nada le falta.
Solo Dios basta. (s. Teresa de Jesús)
nada te espante,
todo se pasa,
Dios no se muda;
la paciencia
todo lo alcanza;
quien a Dios tiene
nada le falta.
Solo Dios basta. (s. Teresa de Jesús)