domenica 10 febbraio 2013

Nada te turbe, nada te espante (Nulla ti turbi, nulla ti spaventi)



Gioco ancora con le mie carte, pagine della mia vita, scritte anni addietro e rese lettere indirizzate a mio figlio. Questa porta la data del 17.02.2007

Caro figlio mio, mio caro Daris.
Per tanti anni ho camminato a fianco del dolore. Mi sono immerso in esso facendomene carico. Il dolore ti avvinghia, divorandoti. Sono stato testimone oculare di tanta sofferenza. Non si può alla lunga fingere col dolore occupandosene mentendo che non lo sia. Un educatore tra tossici e disperati vari è un uomo intriso di sofferenza, piegato sul male altrui.
Allontanati da chi vivendo nel (e del) dolore altrui afferma di non esserne parte, sostiene di non entrarci.  Non è vero e non può esserlo per due motivi. Perché se lo fosse non sarebbe un uomo e poi se anche vi riuscisse non val la pena conoscerlo.  Negli ultimi tempi ho avvertito come non mai il peso e la fatica del dolore, il travaso prepotente nella mia esistenza.  Il rischio di non voler sentire/vedere/toccare più alcun grado di tribolazione andava a spegnere l’entusiasmo e il coinvolgimento propri di un’attività di rieducazione e cura. L’incognita del distacco andava a sollecitare una qualche facile maschera cinica ammantata di protettiva professionalità. Un vincolo  per un portatore di speranza, un limite nella tessitura d’una relazione umana.
A malincuore e in modo graduale ho lasciato. Penso che vi sia in un qualche recondito angolo della memoria personale, una sofferenza che permette d’essere capita senza bisogno d’interpreti e mediatori. Quando ho pensato di lavorare tra persone tossicodipendenti, vi ho aderito perchè coinvolto personalmente  giovane tra i giovani della mia generazione. Perché ho visto volti di amici e conoscenti spegnersi per la droga e stravolgersi dalla pazzia. Mi ripenso da giovane a come incoscientemente abbia scorrazzato rasentando la follia. Son fatto di carne e sangue; mi sono reso disponibile a far qualcosa per questa terra e per altri suoi figli di carne e sangue. Ho speso di mio ma ho guadagnato molto di più senza calcoli preventivi.  Mi insospettisce l’idea di poter giustificare il dolore di questa terra scomodando fati e dei. Ho smesso di rimanere attaccato a quella sofferenza; il senso d’impotenza acuiva la distanza dal dolore degli altri. Non credo vi sia un senso al dolore tale che lo possa rendere apprezzabile, giustificabile, amabile. C’è forse un senso che in parte lo rischiara rendendolo forse più sopportabile. Ma mai pienamente comprensibile. Caro Daris, come ti ho già detto siamo fatti per la pienezza di vita, siamo chiamati alla gioia; eppure siamo parte di una storia di patimenti. Ho scoperto che occorre fare un cammino, fidarsi di qualcuno che il tragitto l’abbia fatto; qualcuno che ci rassicuri quasi afferrandoci per mano e ci dica “non avere paura, alla fine per quanto grande e spaventoso è il dolore non avrà l’ultima parola. Non avere paura, insieme, con amore, riusciremo ad attraversare la sofferenza della vita”.
 Nada te turbe
nada te espante,
todo se pasa,
Dios no se muda;
la paciencia
todo lo alcanza;
quien a Dios tiene
nada le falta.
                      Solo Dios basta.
(s. Teresa de Jesús)




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