venerdì 1 febbraio 2013

L'eredità di mio padre




Caro figlio mio, mia gioia,

un martedì notte di undici anni fa chiudevo gli occhi a mio padre. Moriva consumato da un cancro. L’ho assistito al suo capezzale tenendogli la mano, accarezzandogli la fronte e i suoi capelli. Gli sono stato accanto sino all’ultimo respiro. Gli bagnavo le labbra, gli ho sussurrato tante parole d’affetto che probabilmente non gli ho mai rivolto quand’era in vita. Tra le lacrime gli raccontavo tanti aneddoti della nostra famiglia, tanti ricordi che affioravano prepotenti.
Che genere di padre è stato mio padre? Mi ha fatto incontrare e mi ha fatto rispettare la natura, m’ha reso amica la montagna. Mi ha fatto conoscere i nomi delle piante, dei fiori e dei funghi. Mi ha fatto amare il cielo e la campagna. I silenzi della natura, i temporali delle cime, i sentieri con gli scarponi e le piccozze, i pantaloni di velluto a coste e alla zuava, le camicie a quadri di flanella e i calzettoni colorati di lana, i cori della montagna e della resistenza,…dio nei frammenti di vita, l’assoluto liberato da orpelli e cerimonialismi di maniera. Mi ha fatto avvicinare ai sapori buoni e genuini della tavola, regalandomi la gioia della cucina e del buon vino. La ricerca di formaggi particolari e di salami stagionati, di coppe e di ossi di prosciutto crudo da piluccare.  Mi ha trasmesso il gusto della compagnia al suono della sua chitarra, i canti e il ballo. Delle barzellette e delle battute ridicole. La gioia della festa con il dolce che non mancava mai nei giorni comandati. Mi ha insegnato a difendermi, ad avere coraggio e a non calarmi le braghe davanti ad alcuno. Mi ha insegnato a fischiare, ad andare in moto ed in macchina, a pescare e ad arrampicarmi. Non gli ho mai perdonato di avermi intimorito mentre mi insegnava a nuotare. Mi ha fatto imparare ad essere ricco da povero e povero da ricco, ad essere generoso.   Insieme con lui il primo grande viaggio della mia vita, a sedici anni in Canada nelle grandi regioni del Quebec e dell’Ontario; a pesca di salmoni sulla costa del Pacifico e a mangiare carne di bufalo e di alce nei parchi e sulle rive dei laghi mettere al fuoco le trote appena pescate, ad ascoltare Neil Young e Leonard Cohen. Poi ancora nelle miniere d’oro abbandonate nell’interno della valle Anzasca, a girare nella  Val Vigezzo e in Val Grande, a due passi dalla Svizzera a cercare frammenti di rocce particolari e ripercorrere i suoi passi nella repubblica ossolana; poi nelle trincee del Presena e del Gran Paradiso a recuperare dal ghiaccio proiettili e giberne; ad ascoltare i bramiti dei cervi e ad osservare i voli delle aquile in val Paghera e sul corno dell’Omacciolo; mi ha insegnato a catturare le vipere per poi portarle da un farmacista suo amico da cui ricavava il liquido per il siero antiofidico. Con la genziana, il ginepro e il cumino facevamo liquori per l’inverno; affettavamo i funghi da mettere al sole e far seccare. E per Natale recuperavamo pigne, muschio, sassi e quant’altro per fare un grande presepe.  Poi mi ha donato forti emozioni al racconto della sua vita: vita da trapezista, da profugo in Svizzera, da giovane che attraversava la via dei contrabbandieri per portare vettovaglie e messaggi ai partigiani in montagna, a Genova liberata a suonare per gli americani nei bar ridondanti di vita. Mi scaldavo ai suoi racconti incrostati di libertà, spensieratezza, nostalgia, rabbia. Caro Daris, figlio mio, sul letto di morte di mio padre mi sono riavvicinato a lui ed improvvisamente ne ho sentito tutto l’amore di figlio; mi sono accorto di quanto e per quanto me ne fossi allontanato. Lo stavo perdendo eppure c’eravamo così riavvicinati. Oggi  penso che un uomo che insegni a fare tutte queste cose al proprio figlio meriti un buon ricordo, l’onore pieno della memoria. Un affetto e una stima che rimane al di là del tempo.     


2 commenti: