domenica 23 ottobre 2011

Nulla rimane negoziabile, nulla è scontato nella fede

MOra che Gheddafi è morto, mi faccio alcune domande che rimarranno temo senza risposta.  Per quanto tempo ancora dovrà permanere l'impegno militare italiano in Libia?  Non è anche la pace un valore non negoziabile? Non è anche il tempo di una visione cristiana, in politica, di una militanza aliena da ogni volontà di belligeranza e lontana  da lobby militari? Non sarà più facile ridurre il welfare, tagliare le spese nei servizi sociali anzichè tagliare le spese per l'esercito e le armi? 

Coglie nel segno l'articolo di ieri su  "la Repubblica" a firma di Enzo Bianchi: "perché per ogni cristiano il rispetto assoluto della vita umana, il rifiuto della guerra, la salvaguardia della pace, la giustizia e l'eguaglianza sociale, il perdono del nemico, la riconciliazione nei conflitti sono tutti valori irrinunciabili".                                                

Il risveglio dei cattolici nel Paese malato
di Enzo Bianchi
(in “la Repubblica” del 22 ottobre 2011)
In questi ultimi anni abbiamo più volte indicato non solo l'afonia dei cattolici in politica - la
debolezza di rilevanza nella progettazione e nella costruzione della polis - ma anche le cause che
l'hanno prodotta, tra cui l'intervento diretto in politica di alcuni ecclesiastici e la scelta di agire come
un gruppo di pressione. La diaspora dei cattolici in politica all'inizio degli anni Novanta appariva
non solo come una necessità motivata ma anche come una preziosa opportunità, una "benedizione":
rendeva infatti evidente che la comunità cristiana vive di fede e di coerente comportamento etico,
ma non di soluzioni tecniche nella politica e nell'economia. Di fatto però questa diaspora si è ridotta
a irrilevanza e, fatto ancor più grave, ha lasciato segni di contrapposizione e forti divisioni tra i
cattolici stessi. In tale ambiguità, proprio per l'esposizione diretta avuta da alcune figure
rappresentative della Chiesa, questa ha subìto una perdita di credibilità e nella comunità cristiana è
apparso, dopo una stagione di grandi convinzioni, un sentimento di scetticismo, di frustrazione,
anche di cinismo...
Potremmo dire che comunità cristiane depresse sul versante politico, per incarnare comunque il
Vangelo hanno scelto di privilegiare una presenza sociale fatta di volontariato, di carità attiva,
finendo però anche per aumentare la sfiducia verso la politica. Alcuni hanno tentato di essere
"cattolici in politica" senza integralismi e cercando di restare ispirati dalla propria fede. Ma sono
stati irrisi come "pretenziosi cattolici adulti", considerati inadeguati alla strategia in atto se non
addirittura presenze nocive nel necessario confronto con la polis.
Ora il vento è cambiato e ha fatto sentire quanto una certa "aria ammorbata" vada purificata: si
ritiene allora opportuno abbandonare la strategia adottata in questi ultimi vent'anni, senza tuttavia
confessare gli errori compiuti, senza assumersi alcuna responsabilità per questo impoverimento del
tessuto ecclesiale e, di conseguenza, della presenza dei credenti in politica. Ecco allora, ancora una
volta, il ricorso alle associazioni cattoliche, minoranze ispirate dalla fede cristiana ancora attive e
presenti nel paese, ecco l'appuntamento di Todi.
Evento certamente importante, che viene dopo anni di non ascolto reciproco, nonostante da parte
dell'autorità ecclesiastica si sia tentato di far cessare guerre e inimicizie tra le varie associazioni già
alla fine degli anni Novanta. E il ritrovarsi questa volta è finalizzato a rispondere a una domanda:
quale presenza significativa i cattolici possono avere in politica in questo momento giudicato di
grave crisi a tutti i livelli per il nostro paese?
Ma proprio questo evento suscita anche una domanda di fondo negli appartenenti alle comunità
cristiane: perché un incontro su tematiche che riguardano tutti i cittadini cattolici viene riservato
invece alle associazioni che, salvo l'Azione Cattolica, peraltro soffrono attualmente di un forte
depotenziamento a livello di convinzioni? Più volte in questi vent'anni abbiamo auspicato un
"forum" che nelle varie chiese locali raggruppi tutti i cattolici per favorire la conoscenza e il
confronto su temi che richiedono una traduzione politica. Abbiamo specificato che questo forum,
aperto a rappresentanti di tutte le componenti della Chiesa, dovrebbe, in un dialogo libero e
fraterno, cercare ispirazione dal Vangelo e confrontarsi con la dottrina sociale della Chiesa, restando
tuttavia su un terreno prepolitico, preeconomico, pregiuridico, nella consapevolezza che la
traduzione di queste ispirazioni cristiane messe a fuoco insieme appartiene ai singoli cattolici che
devono confrontarsi negli spazi politici in cui sono presenti e con tutti gli altri cittadini.
Nessun integralismo, nessuna pressione lobbistica, nessuna imposizione, ma la riaffermazione che
essere cattolici in politica significa da un lato restare ispirati e coerenti con la propria fede e, d'altro
lato, nel dialogo rispettoso con gli altri cittadini, cercare faticosamente soluzioni politiche,
economiche, giuridiche adeguate alle esigenze che si presentano e al bene comune che intende
salvaguardare e costruire. Così facendo, se anche i cristiani apparissero una minoranza, non ci
sarebbe nulla da temere perché sarebbero una presenza significativa capace di contribuire alla
formazione di politici con a cuore il bene comune, alla progettazione di un nuovo patto educativo,
all'ideazione di un futuro per le giovani generazioni, una presenza in grado di fornire esigenze
etiche di umanizzazione e contributi decisivi in quel confronto di idee e di visioni che oggi
purtroppo tanto difetta.
Quello di Todi non è stato un forum di questo tipo, anzi: ha rischiato di cedere alle sollecitazioni
perché fornisse soluzioni solo politiche e contingenti. Eppure c'erano state alcune indicazioni che
avrebbero potuto mettere in guardia i partecipanti, a partire da quelle del segretario della Cei,
monsignor Crociata che, ai politici che si dicono cattolici, ha recentemente ricordato che esiste un
primato della fede, luce per ogni scelta, una comunione tra cattolici che li precede e che deve
manifestarsi nel discernimento di ciò che il Vangelo chiede; ma al contempo ha sottolineato che c'è
un diverso ordine che riguarda il carattere contingente della scelta politica di schieramento e la
forma politica in cui i cristiani sono chiamati a operare.
Nessun partito cattolico, quindi, e neanche "di cattolici" hanno ripetuto diversi vescovi, né
tantomeno un "partito della Chiesa". La laicità della politica va assolutamente salvaguardata e i
cattolici dovranno inevitabilmente operare con responsabilità una scelta di campo che li renda una
"parte" di schieramenti o di spazi politici in cui si collocano.
Ma non è questo, per ora, ad apparire decisivo, quanto piuttosto il recuperare le ragioni profonde
dell'azione nella polis, il tessere un dialogo nella comunità cristiana per essere muniti di ispirazione,
il sapersi collocare nella compagnia degli uomini senza esenzioni ma assumendosi responsabilità, il
saper parlare di progetti e ragioni in termini non dogmatici ma semplicemente umani, antropologici,
affinché gli altri comprendano e possano confrontarsi liberamente con i cristiani, lasciando poi alle
regole della democrazia e ai suoi criteri di determinare le scelte necessarie ai diversi livelli e le
esigenze del legiferare per il bene della convivenza.
E in questo spazio prepolitico di confronto, i cattolici potrebbero anche imparare un'esigenza
fondamentale per la loro fede: l'importanza di non fare letture parziali del Vangelo, privilegiando
alcuni principi e valori e dimenticandone altri... Secondo Paul Valadier, lo statuto del cristianesimo
è quello di essere una "religione anormale": perché per ogni cristiano il rispetto assoluto della vita
umana, il rifiuto della guerra, la salvaguardia della pace, la giustizia e l'eguaglianza sociale, il
perdono del nemico, la riconciliazione nei conflitti sono tutti valori irrinunciabili. Impresa non
facile certo, soprattutto in una stagione in cui riemerge l'atavica tentazione della religione: andare a braccetto
con il potere politico finchè il vento non cambia direzione.

sabato 22 ottobre 2011

Dilatare il cuore, occupare il presente

                                                                     Quanto manca?  

Quanto manca?
Quanto devo ancora aspettare?
Ho fretta, Signore.
Ho fretta di iniziare a vivere,
ho fretta di trovare una porta aperta
tra i mattoni del quotidiano;
ho fretta di trovare un uomo
che sappia dire il mio nome.
Ho fretta, qui,
sotto la mia pelle,
qui,
sulla spiaggia
dei miei vent’anni.
Le gambe
hanno fretta di andare.
Gli occhi hanno fretta di vedere
che cosa sarà di me.
Ho troppa fretta, Signore,
e non sono capace di attendere.
Insegnami Tu,
la pazienza della quercia,
il passo lento dei pianeti,
la fiducia del seme
perso nella neve.
Insegnami Tu, Padre mio,
ad attendere il domani
senza sbriciolare l’oggi.
Insegnami il ritmo dell’eternità
e il valore di un istante.
Insegnami l’attesa,
sulla soglia del presente.
Amen.
                                                                                                    (Emily Shenker)



                                                    Conosco delle barche

Conosco delle barche che restano nel porto per paura che le correnti le trascinino via con troppa violenza.

Conosco delle barche che arrugginiscono in porto per non aver mai rischiato una vela fuori.

Conosco delle barche che si dimenticano di partire, hanno paura del mare a furia di invecchiare e le onde non le hanno mai portate altrove, il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

Conosco delle barche talmente incatenate che hanno disimparato come liberarsi.

Conosco delle barche che restano ad ondeggiare per essere veramente sicure di non capovolgersi.

Conosco delle barche che vanno in gruppo ad affrontare il vento forte al di là della paura.

Conosco delle barche che si graffiano un po' sulle rotte dell'oceano ove le porta il loro gioco.

Conosco delle barche che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora ogni giorno della loro vita e che non hanno paura a volte di lanciarsi fianco a fianco in avanti a rischio di affondare.

Conosco delle barche che tornano in porto lacerate dappertutto, ma più coraggiose e più forti.

Conosco delle barche straboccanti di sole perché hanno condiviso anni meravigliosi.

Conosco delle barche che tornano sempre quando hanno navigato fino al loro ultimo giorno, e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti perché hanno un cuore a misura di oceano.  

(Jacques Brel)

giovedì 20 ottobre 2011

La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella Sua e nella nostra incarnazione.

Ho seguito dai giornali e riviste i lavori del convegno dei cattolici italiani tenutosi a Todi. Parole e concetti che, con tutto il rispetto, mi sono sembrati giurassici, come le associazioni lì rappresentate. Non voglio essere dissacrante ma mi è parso di riascoltare le stesse istanze, le stesse logiche e "tecniche" ribadite a più riprese venti o trent'anni fa. I passi che conducono ad affermare giochi di potere, di appartenenze, di numeri da pesare in ragione di distintivi da esibire, privilegi da mantenere, interessi da coltivare, fedeltà dichiarate da ostentare. E' una logica povera. Ne intuisco l'aspetto umano, teneramente umano.  Eppure...sappiamo tutti che molte sigle associative lì presenti hanno solo il logo ricco di tradizione e storia ma rinsecchito in quanto a partecipazione. Ce la contiamo ancora che queste realtà esprimono le masse cattoliche. La realtà è meno rosea di quanto ci viene ripetuto. L'umanità sembra andare altrove assetata e affamata di giustizia, cercando ristoro,  amore, condivisione. E và dove trova, dove sente di essere accolta per quel che è.
  Riporto due interventi provenienti da sensibilità, e culture diverse. Per me, pellegrino sotto questo cielo, due piccoli segnali, due stelline che mi fanno ben compagnia e sperare in questa stagione grigia.

Il primo è un breve intervento tratto da  "la Repubblica" del 20 ottobre 2011  ed è di Michele Serra; il secondo è la lettera che Ermanno Olmi scrive ad "Avvenire" del 19 ottobre scorso a seguito di alcuni interventi del suo ultimo film "Il villaggio di cartone".




I valori cattolici
di Michele Serra


Che cosa unisce un missionario comboniano e un vescovo lefebvriano? Una sola cosa, la fede
cattolica. Ma per cultura, visione del mondo e degli uomini, pratiche sociali, idee politiche, i due
sono esattamente agli antipodi. Schematizzando: estrema sinistra, estrema destra. In mezzo, ci sono
milioni di cattolici che votano Berlusconi credendolo un difensore della famiglia tradizionale, e
quasi altrettanti cattolici che lo spregiano come accanito profanatore dei loro convincimenti morali:
segno oggettivo del fatto che i "valori cattolici", per gli uni e per gli altri, non sono assolutamente
gli stessi. Chiedete a Giovanardi che cosa pensa dei diritti dei gay, e chiedetelo a un prete di strada
come don Gallo, e otterrete risposte inconciliabili tra loro. Entrambe di cattolici.
Dev´essere per questa totale variabilità e mutevolezza della presenza cattolica nella società e nella
politica che fatico a mettere a fuoco dibattiti come quello conseguente al raduno di Todi. Rivolgersi
"ai cattolici" o definirsi cattolici vale, in politica, quanto rivolgersi a tutti, e dunque a nessuno. In
una società secolarizzata come la nostra, la politica, la cultura, la maniera di stare in società di ogni
essere umano ne orientano i pensieri e gli atti in modo assai più determinante della confessione
religiosa.   (la Repubblica)


Ermanno Olmi: «Così leggo la carità»
Caro direttore,
ricevo “Avvenire” fin da quando, molti anni fa, con cari amici ormai lontani, vedemmo uscire dalle rotative il primo numero del giornale. L’affezione e l’ammirazione sono sempre stati per me saldi riferimenti quotidiani per il rigore e la libertà d’opinione dei suoi collaboratori e quindi per il rispetto del lettore. Tanto che ho molto apprezzato gli interventi apparsi in “Agorà” dopo l’uscita del mio ultimo film Il villaggio di cartone. E di questa attenzione nei miei riguardi, caro direttore, la ringrazio e, se lo riterrà utile per i suoi lettori, mi farà piacere se pubblicherà queste mie note sul dibattito che ne è seguito.     Giovanni Bazoli, prima sul “Corriere della Sera” e poi su “Avvenire”, pone l’attenzione su due contrapposti valori invocati dal vecchio prete, protagonista dell’apologo cinematografico. Che dice: «Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede». Subito, un intervento di Marina Corradi su “Avvenire”, mi rimprovera: «di coltivare così tanti dubbi di fede che la storia (del film) rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani». Ma come sarebbe «la carità dei cristiani»? Dunque ci sarebbero più carità? E quella dei cristiani è forse tanto speciale e diversa da quella di altre fedi religiose? Mi piacerebbe conoscere l’elenco delle diverse carità. Bazoli chiarisce: «Il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio e della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo; vale come monito a intensificare l’impegno religioso e umano». Ugualmente, Marina Corradi insiste: «In realtà il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete “per fare del bene” ma per portare Cristo agli uomini, che è assai di più». La fede è in sé un valore, ma non è determinante per fare del bene. Né il fare del bene ha mai ostacolato la fede di alcuno. La fede è innanzitutto un sentimento che ciascuno coltiva nel profondo di sé, in solitudine. E con tale stato d’animo parteciperà la sua fede con quella dell’altro, in comunione con Dio. Un’altra voce che ha partecipato a questi interrogativi sul primato tra fede e carità è quella di Piero Coda, teologo e presidente dell’Istituto universitario Sophia: «Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse nel capitolo 113 della Lettera ai Corinzi. L’agape è la via che tutte le altre sopravanza. Non avere l’agape significa essere nulla». E prosegue: «L’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano». Come vede, caro direttore, mi appello a autorevoli testimoni della cristianità. Ed ecco che ancora Piero Coda mi suggerisce sant’Agostino: «La carità spinse Cristo a incarnarsi». È di pochi giorni fa, in Egitto, il divampare di conflitti fra appartenenze religiose mettendo l’una contro l’altra. E soltanto ieri, a Roma, la dissennata violenza di giovani praticata con la rabbia della distruzione. E mi domando se è del tutto azzardato pensare che anche questi giovani allo sbando non provino un loro delirante atto di fede in una “religiosità” criminale. Ancora una volta la Storia ci avverte che il vincolo tra fede e “Chiese delle diversità” può avere esiti di immani tragedie. E sappiamo anche che, nel corso dei secoli, le religioni hanno avuto necessità di cambiamenti imposti dai radicali mutamenti delle realtà che inarrestabilmente sopravvenivano. E quindi, concili, riforme e controriforme, sempre per adeguarsi con significati nuovi alle esigenze del cammino della Storia. Dunque: anche le religioni cambiano e cambiano i nostri comportamenti. Solo il bene non cambia. Ma il bene non è esclusività di istituzioni. La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella Sua e nella nostra incarnazione. (Avvenire)


lunedì 17 ottobre 2011

Non mi interessa altro

"Siamo disposti a perdere quanto? a quanto possiamo rinunciare?"     "Dimmi perchè rinunciare e perdere..."     "Per nulla, forse solo per camminare più leggeri e avere il cuore libero d'innamorarsi ancora... per godere la vita e ...forse per non rinunciare a se stessi, e non smarrirsi."  ddv




«L'invito» di Oriah Mountain Dreamer



Non mi interessa che cosa fai per vivere; voglio
sapere che cosa ti fa spasimare e se osi sognare
di andare incontro all'anelito del tuo cuore.
Non mi interessa quanti anni hai; voglio sapere
se rischieresti di passare per stupida per amore,
per un sogno, per l'avventura di essere viva.
Non mi interessa quali pianeti siano in
quadratura con la tua luna. Voglio sapere se hai
toccato il centro del tuo dispiacere, se i
tradimenti di una vita ti hanno aperta oppure ti
hanno raggrinzita e chiusa per paura di altro dolore.
Voglio sapere se riesci a sederti con la
sofferenza, la mia o la tua, senza muoverti per
nasconderla, né per sedarla, né per mandarla via.
Voglio sapere se riesci a stare con la gioia, la
mia o la tua, se riesci a ballare selvaggiamente
lasciando che l'estasi ti riempia fino alle
estremità delle dita delle mani e dei piedi senza
ricordarci di stare attenti, o di essere
realistici, né per rammentarci i limiti
dell'essere umano.
Non mi interessa se la storia che mi stai
raccontado è vera. Voglio sapere se riesci a
deludere un altro pur di essere sincera con te
stessa. Se riesci a sopportare l'accusa di
tradimento senza tradire la tua anima. Se riesci
a essere senza fede e perciò degna di fede.
Voglio sapere se riesci a vedere ogni giorno la
bellezza anche quando non è pittorica; e se
riesci a far scaturire la tua vita dalla sua
presenza.
Voglio sapere se riesci a vivere col fallimento,
il tuo e e il mio, e tuttavia, sul bordo del
lago, a gridare al plenilunio d'argento il tuo
«Sì!».
Non mi interessa sapere dove vivi o quanti soldi                                    
hai. Voglio sapere se riesci ad alzarti dopo una
notte di dolore e di disperazione stanca e con le
ossa a pezzi e a fare ciò che va fatto per dar da
mangiare ai bambini.
Non mi interessa ciò che sai né come sei giunta
qui. Voglio sapere se starai nel centro del fuoco
con me senza tirarti indietro.
Non mi interessa dove o che cosa o con chi hai
studiato. Voglio sapere che cosa ti sostiene da
dentro quando tutto il resto crolla.
Voglio sapere se riesci a stare sola con te
stessa e se ti piace davvero la compagnia che ti
fai nei momenti vuoti.



giovedì 6 ottobre 2011

Si aspettano sempre le persone che si amano


                                                                                    
Spesso, le intuizioni più profonde e importanti nascono dai piccoli fatti di ogni giorno, dall'ascolto della vita. Oggi, è venuto da me un uomo, un vecchio di ottantacinque anni che arrancando lento e curvo sul suo bastone è stato introdotto nel mio studio. L’ho fatto accomodare e una volta seduto ha cominciato a raccontarmi del perché fosse venuto a trovarmi.   La moglie era morta la settimana scorsa. E mentre diceva questa notizia sentivo la voce tremolante, la flessione nel tono. Mi ha pregato di scusarlo. Con una mano si è tolto gli occhiali e con l’altra cercava il bianco fazzoletto per asciugare le lacrime che silenziose gli rigavano il volto pieno di rughe.   
E’ stato un istante e quest’uomo col suo dolore mi ha fatto pensare alle parole del  Qoelet. C’è un tempo per ogni cosa,  un inizio e una fine.  Tutti i nostri sforzi, tutte le nostre imprese, l’amore, la passione, la rabbia, il dolore, la speranza, i figli… ogni nostro pezzo di vivere non si sottrae a questa legge. Saremo polvere e prima ancora, cinicamente, carne per vermi.      
Ma allora conta o non conta come si andrà ad occupare quel tempo (la cui durata è sconosciuta) che sta tra l’utero e la tomba, tra  l'inizio e la fine?
E' un riempimento di tempo (a tutti i costi da consumare, da occupare, da ammazzare) o può essere qualcosa di più, magari un coinvolgimento sempre più intimo e penetrante nella consapevolezza dell’autenticità della nostra vita, del nostro sprofondare ed essere incamminati verso un fine e non solo verso una fine?     Un vivere in pienezza cercando come un rabdomante il senso e percependone come una missione?
Un altro pensiero si è affacciato: se si contassero i giorni non potrebbe essere, al di là di una iniziale e comprensibile ansia, che misuri in qualità e in intensità il tempo che ho da vivere?
Non potrebbe essere che si avverta la necessità, l’urgenza di andare a sorseggiare quel tempo dentro il quale scorre l’esistenza?
Magari che si impari ad amare la vita come mai si è fatto non sciupandone neppure un istante?
Solo pochi mesi prima avevano, lui e sua moglie, festeggiato attorniati dai loro cari i cinquantanni di matrimonio. Dalla tasca della giacca, protetta da una pellicola trasparente,  estrae e mi mostra le foto di quell’ultima loro festa.
 Sussurra una domanda “chissà se ci vedremo ancora da qualche parte?”  Di getto, commosso e senza pensarci, ho risposto col cuore “si aspettano sempre le persone che si amano, e se non si trovano sono tristi e  si cercano fino a trovarsi per essere felici”.



mercoledì 5 ottobre 2011

la nostra debolezza luogo d'incontro con Dio

Mi pare che sia tutto così fragile, debole. Che tutto necessiti di particolari cure e attenzioni. Che tutto richieda riguardi e considerazioni. E tempo. Ogni cosa andrebbe coltivata.
Viceversa attraversiamo il nostro vivere quasi di corsa, affannandoci e poco considerando incontri, persone, spazi, parole: tutto appare quasi dovuto, scontato. Mentre ogni cosa parla di fragilità (la relazione d’amore che stai vivendo, il lavoro, i rapporti con gli amici, la salute,..) noi cerchiamo sempre qualcosa di stabile, fisso.  In modo ostinato ripetiamo meccanicamente quei comportamenti che da sempre ci accompagnano: in fondo, pensiamo, se hanno funzionato innumerevoli volte, vuol dire che continueranno a funzionare.
Ci fidiamo della nostra esperienza, quella che riteniamo essere per noi l’unica fonte di verità.
 Scopro invece come il vivere proceda in nome della precarietà, di quella provvisorietà all’interno della quale ci stanno mescolati quei mille ingredienti che rendono l’esistenza di ciascuno unica e assolutamente irripetibile.  Mi trovo ora allergico e mi ritraggo udendo le grida di chi propone soluzioni definitive, assolute.  Di certezze perentorie, qualunque esse siano.
Mi ritrovo a riscoprire la presenza di Dio nella mia vita non come certezza granitica, come approdo definitivo ma come sorpresa assoluta, come Interlocutore che si rivela e comunica coi fatti (con gli incontri, le persone, gli spazi, la parola) travolgendo spesso le mie certezze. Ed è un ricominciare da capo per riannodare le fila di un rapporto dentro il quale mi sorprendo debole e in balia degli eventi, in ascolto.  Così mi pare che sia in questa debolezza il luogo dell’incontro, lo spazio favorevole all’accoglienza di Dio.



 "La fede non è un possesso definitivo, non è una certezza acquisita una volta per tutte: essa partecipa dell’insicurezza che caratterizza la libertà della persona e per questo nel cuore di ogni credente c’è una certa simultaneità di fede e di incredulità, come ci testimonia anche il Vangelo di Marco a proposito del padre del bambino epilettico che si rivolge a Gesù in questi termini: «Credo, aiutami nella mia incredulità!» (Mc 9,24). Il dubbio fa parte del credere, quindi la precarietà, l’incertezza fa parte della fede: ogni giorno la fede si rinnova vincendo il dubbio, accettando di non sapere, decidendo di acconsentire liberamente a una promessa, vivendo come pellegrini mai residenti, sentendosi non soli ma insieme ad altri, come in una carovana. (Enzo Bianchi, Da precario dico amen e attendo che Dio risponda,  Avvenire, 19 settembre 2010)


lunedì 3 ottobre 2011

Cercatori di luce

“Se il bimbo nel seno della madre, preoccupato di uscire, contasse sulle sue sole forze e sulla sua abilità, non uscirebbe mai alla luce.
Ma c'è chi lo farà uscire.
È la dinamica stessa della natura, è il mistero di chi l'ha preceduto.
La nostra debolezza è che guardiamo a noi, sempre a noi, solo a noi". 

E’ una citazione che ho ricopiato anni addietro in uno dei tanti fogli disseminati un po’ ovunque per la casa ed è di Carlo Carretto nel Deserto nella città.
La settimana scorsa è venuta da me una coppia di sposi. Di recente hanno perso il loro unico figlio ventenne; la mamma di questo figlio in poche settimane è dimagrita più di venti chili, non và più al lavoro; è sostenuta da psicofarmaci e dalla presenza, anch’essa sofferente ma più trattenuta, del marito. Proprio il marito, il papà di quel figlio morto in un incidente stradale, nell’incontro che ho avuto, accomiatandosi mi ha detto che durante il percorso dalla chiesa al cimitero ripeteva rivolto al corpo nella bara, rabbioso e in continuazione, come un' astiosa litania: «Alzati! Vieni fuori da lì!». 
Se fosse umanamente possibile far tornare qualcuno dalla morte, l'amore dolente di questi genitori era tanto forte che ne sarebbe stato capace.
Ecco forse la novità da Dio: la risurrezione.   Davvero divina o forse proiezione umana: è la possibilità che ha l’uomo di far perdurare nel tempo ed oltre il tempo, nello spazio ed oltre lo spazio questa speranza che sottrae vita alla tomba, che dia senso all'essere nati. 
Mi è difficile sperare. 
So bene che la fede è una fiducia semplice, naturale, primordiale, istintiva. Non si appoggia su dimostrazioni e garanzie umane, fossero pure dogmi.
E ho scoperto che è nuda, debole, fragile, non ama esibirsi ed è lontana da ostentate granitiche certezze (semmai di queste bisognerebbe temere).
In certi momenti si accendono in noi alcune scintille, ma sono solo l'inizio della fede, l'inizio del chiarore di Pasqua.    Non posso dire di conoscere ancora la Scrittura, non l'ho ancora compresa.  Però, non ci sarebbero nemmeno questi sprazzi, se chi crediamo essere il Risorto non fosse in qualche modo già presente in noi, se già non avessimo e coltivassimo “naturalmente” nel nostro cuore il desiderio di vita. Di pienezza di vita.
Le Scritture dicono che le pie donne e poi alcuni discepoli videro il sepolcro vuoto e allora il loro cuore percepisce qualcosa, senza spiegazioni.  In fondo penso che la  resurrezione, non sia una dottrina, una teoria teologica.
È la naturale speranza che ci nasce dentro, quando anche con l'ascolto della Parola e quando anche con la preghiera si incontra Gesù come persona viva.  Quando anche siamo nel buio più cupo, e la nostra fede è desiderare di avere fede e nonostante tutto voler credere. Come si può ma con sincerità.
Forse ciò a cui siamo chiamati, consapevoli o meno, è essere bagliori di Pasqua ovunque ci troviamo.
Non siamo chiamati ad essere rappresentanti della fede, suoi propagandisti o docenti: solo barlumi di speranza, semi d’amore.   Quando ci sentiamo schiacciati da una croce, non cerchiamo qualcuno che ci faccia prediche devote, che ci ammonisca con pistolotti surgelati.  Per noi sono luce una presenza amica, un sorriso, un abbraccio silenzioso, la dolce determinazione a condividere il nostro peso, un gesto fatto di tenerezza.
La prima aurora fa baluginare l'alba. 
Così, dei credenti luminosi – non dei soldati o dei burocrati della religione – alimentano la speranza nella risurrezione.    Senza distintivi, privi di patentini da religiosi, come semplici samaritani. 
Umani solo profondamente umani.
Siamo cercatori della luce e di essa bagliori.