domenica 29 dicembre 2013

Tra amici e il "mi sta a cuore"



Non è mai lunga la strada che porta a un amico. Da tempo non ci si vedeva e così ieri siamo stati a casa di amici.   Il Fabri, la Giò, la piccola Sofia. Un po' di anni da raccontarci; patemi d'animo da condividere. 
Tralascio il post che avevo in mente. Amanti di don Milani anche loro, nella giornata di ieri i riferimenti a Barbiana sono stati diversi. Come l'accostare il ciò che ciascuno di noi vive, nel proprio pezzetto di chiesa, al modello "alto" preso a riferimento. Agli esempi quotidiani di un vivacchiare ecclesiale con una ridotta capacità di responsabilità condivisa; d'un fare chiesa dal volto piccolo borghese: ciascuno a casa propria, ognuno, monade tra le monadi, ad arrabattarsi  coi propri problemi e difficoltà!

Avverto sempre più la necessità di far risuonare dentro di me frasi tratte dalle letture di chi mi ha in parte indirizzato alla fede.   Siamo nel dicembre del 1954 e don Lorenzo Milani sale a Barbiana, isolata e quasi sperduta parrocchia sul monte Giovi, nel Mugello.  In questa  realtà “inessenziale” di campagna, all'apparenza così insignificante nel piano umano (e anche nell'economia divina),  il don inizia  ben presto a raggruppare i figli delle famiglie contadine disseminate sulle montagne di Barbiana.
Nel pensiero di don Lorenzo la scuola è in grado di dare ai poveri dignità e di renderli protagonisti. Così il don invita alla responsabilità i suoi ragazzi, facendo scrivere loro “I care”  (“su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I CARE. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori: me ne importa, mi sta a cuore. L'esatto contrario del motto fascista me ne frego” avrà modo poi di spiegare nella Lettera ai giudici nell’ottobre 1965).
 
 “Mi sta a cuore”. Li chiama ad esserci, a sentirsi responsabili delle proprie azioni, ma soprattutto a sentirsi responsabili delle persone e dei volti incontrati ogni giorno.
Quelle che seguono sono parole tratte da una lezione registrata che don Milani fa a un gruppo di ragazzi della terza media di Borgo San Lorenzo. A loro parla intorno ad un tavolo e cerca di scuoterli, ricordando che possono e devono scegliere, e che ogni scelta porta responsabilità.

“Voi dite: «Si va a ballare perché Borgo non ci offre nulla di meglio». Ma è anche viltà vostra, perché un bambino in fasce non può lamentarsi se le sue fasce sono sporche o strette, ma alla vostra età è troppo comodo scaraventare tutte le responsabilità sugli altri. Avete un'età che se resistete, se cercate, se vi organizzate potete creare un'infinità di cose. Quando avrete tentato e ritentato di avere qualcosa di meglio del ballo, potrò dire con pietà: «Poverine! Non c'è rimedio!». Ma non siete giustificate se non fate nemmeno il più piccolo sforzo. Oltre a tutto sarebbe quasi l'ora di pensare anche a un'altra cosa, e cioè che siete guidate come schiave da qualcuno che vi manda dove vuole lui. A lei Mario, negli anni della sua esperienza di gestore di una pista, è mai successo di vedere uno, due ragazzi, un gruppo di giovani e di ragazze, ribellarsi a un dato tipo di musica e di ballo e pretendere che non fosse suonato e ballato perché non corrispondeva ai loro gusti?” Mario risponde: “Io credo che molti giovani vadano dietro alla corrente. Di solito gli piace quello che è di moda, non quello che gli piacerebbe davvero.”

Responsabilità è dunque anche capacità di aprire gli occhi, di leggere la realtà in cui viviamo per rispondere in maniera concreta a ciò che ci succede intorno. Don Milani fa divenire così la scuola luogo per imparare ad apprendere, a pensare con la propria testa.

“Senti cara, due anni fa, mi trovai a fare una leticata (litigata) in piazza a Vicchio. C'era un imbecille di giovanotto che diceva che lui portava la cravatta per parare il freddo. Fece fare una risata a tutti. Poi provò a dire: «Perché mi piace». Per l'appunto vedo che a tutti intorno piace la stessa cosa, sicché non ci credo. Difatti lui portava la cravatta non perché l'avesse scelta, ma perché la portano gli altri. E voi il twist non lo avete scelto, ma ve lo hanno imposto e ve lo possono imporre come vogliono. Un ballo, se è bello o brutto non importa, quello che impongono è quello che pigliate. Se fissano a New York che quest'anno ballate l'Aida, voi ballate l'Aida, se fissano che ballate la messa da morto, ballate la messa da morto. La vostra libertà è di scegliere entro i limiti delle poche possibilità che vi danno, cioè di ballare un twist o un madison, ma non di ballare o pensare; non di ballare o regnare e essere padroni del vostro voto, del vostro pensiero; non di ballare oppure vincere discussioni; non di ballare o convincere le persone con cui parlate... purtroppo la mia previsione è che sarete pecore, che vi piegherete  completamente alle usanze, che vi vestirete come vuole la moda, che passerete il tempo come vuole la moda. Ma mi dite che soddisfazione ci trovate ad accettare una situazione simile? Ribellatevi! Ne avete l'età. Studiate, pensate, chiedete consiglio a me, inventate qualcosa per sortire da questa triste situazione in cui siete e poter arrivare al punto di fare realmente, con una libera scelta vostra, le cose che vi par giusto fare. Per me sarebbe una umiliazione tremenda se uno mi domandasse: «Cosa stai facendo? Perché lo stai facendo?» e dovessi restare a bocca aperta senza rispondere. Educo i miei ragazzi così, a  saper dire in qualunque momento della loro vita, cosa fanno e perché lo fanno”.

Attraverso il suo progetto educativo, il don dà valore all’impegno personale alla costruzione del bene comune. Ognuno deve agire come si sentisse responsabile di tutto, in armonia e coerenza con la propria coscienza autentica di cittadino sovrano e non più di suddito.

“A fare quelle mossettine in sala da ballo ti riesce e a seguire una riunione politica e sindacale che ti prepara a essere più capace, più sovrana, ti pare di non essere capace? Eppure  probabilmente l'anno prossimo andrai a lavorare e avrai davanti responsabilità immense: licenzieranno una tua compagna di lavoro e dovrai decidere se scioperi o no per lei, se difenderla o no, se sacrificarti o non sacrificarti per lei, se andare in corteo davanti alla prefettura o davanti alla direzione, se rovesciare le macchine e rompere i vetri oppure se tu dovrai zitta zitta chinare la testa e permettere che la tua compagna sia cacciata fuori a pedate dalla fabbrica. Tu queste cose le dovrai decidere l'anno prossimo e per ora ti prepari, twistando in una sala da ballo?"

Da Barbiana don Milani tenta di far sentire ognuno protagonista di un progetto di responsabilità comune. Si può cominciare a scegliere, a mettersi in gioco, a farsi promotore della diversità. E questo può e dovrebbe partire da ogni “maestro che – come scrive don Lorenzo - deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in modo confuso”. "Dovremmo anche – sono ancora sue parole – avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto".  








lunedì 9 dicembre 2013

"...ogni parola non imparata oggi è un calcio in culo domani.”

Su la Repubblica.it leggo in data odierna un articolo con questo titolo: Il reddito familiare influenza l'apprendimento dei figli. “È l'inquietante rivelazione di una ricerca dell'Università di Stanford: un bambino di famiglia benestante ascolta in famiglia circa 12mila parole a lui dirette al giorno, mentre un suo coetaneo cresciuto in una casa dal reddito più basso ne ascolta in media 670. Risultato: i primi apprendono più velocemente     Sotto i due anni, un bambino nato in una famiglia povera sente in media 670 parole a lui dirette ogni giorno. Un bambino nato in una famiglia benestante ne sente fino a 12 mila. Risultato: chi sente più parole è in grado di capire più velocemente, accumula un vocabolario più ampio e farà meno fatica a imparare a leggere e a scrivere.
Lo conferma una recente ricerca dell’Università di Stanford … che evidenzia come le differenze nell’apprendimento comincino nella prima infanzia.   Con il passare del tempo, quando i bambini arrivano alle elementari,
il figlio di una famiglia meno privilegiata risulta indietro fino a due anni rispetto ai coetanei di famiglie benestanti.
È il cosiddetto “development gap”. "Quello che vediamo qui è l’inizio delle disuguaglianze dello sviluppo, una disparità che cresce fra i bambini e che ha enormi ripercussioni sull’istruzione e sulle possibilità di carriera", scrive Fernald. Siccome il linguaggio è legato a doppio filo con la capacità di comprensione della parola scritta, molti bambini di famiglie svantaggiate si trovano ad affrontare un gradino più alto quando cominciano la scuola. E, molto difficilmente, recupereranno il terreno perduto in partenza.  Perché non ne avevamo mai sentito parlare?.....”   
Invito chi fosse interessato ad andare sul sito del quotidiano e leggersi per intero quanto qui ho riportato solo in una piccola parte.

 
Da parte mia mi appresto alla lettura di don Milani rilevando ancora una volta la profeticità del suo pensiero.            A don Milani interessava prima di tutto come essere cristiani e come essere cittadini, come ci si avvicinava a certi contenuti, come si vivevano i  momenti formativi, e un caposaldo nella concezione di don Milani era il problema culturale.

Don Milani diceva: “la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”.  Lui aveva capito che uno stato di povertà, dipendeva molto dal modo in cui le persone conoscevano, si impadronivano e approfondivano le parole.                                                                                               Nella scuola di Barbiana si trova ancora scritta questa frase:  l'operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone”.

La differenza culturale, la differenza di diseducazione, di non conoscenza, da don Milani era espressa con il termine “parole”. Le parole sono, noi diremmo, i contenuti mentali, i concetti, le teorie sulla padronanza linguistica, …; per don Milani le parole sono i contenuti che mancano alle persone.

Don Milani diceva che “solo la lingua rende uguali” .  Per questo, per difendersi dal potere (che è potere proprio perché è padrone della lingua, della cultura), è necessario che i giovani imparino a esprimersi e a comprendere un testo o un giornale (attenzione non quell'inutile sperpero di carta  delle varie gazzette sportive!!), dalla prima all'ultima pagina:  perché “un giornale non scrive per il fine che in teoria gli sarebbe primario cioè informare, ma di solito lo fa per influenzare in una direzione”.


Capire e sapersi difendere.  Eppure "saper leggere" nel senso di riconoscere le parole, non basta.  

Don Milani, pedagogicamente e politicamente, affermava che i padroni della lingua sono i padroni di tutto: sono loro che scrivono le leggi e chiaramente le scrivono adattandole alle loro esigenze: chiaro che, essendo fatte su misura, per loro sarà più facile rispettarle.  Ed è per questo che la scuola deve insegnare che "l'obbedienza non è più una virtù". Quando la legge è ingiusta (e cioè quando non difende i deboli) va respinta: se un ordine, sia pure un ordine militare, è ingiusto, non va eseguito!

Ma quanto sarebbe pericolosa in questo modo la scuola?

La lezione di don Milani oggi pare che l'abbia imparata molto bene soprattutto quella classe di potere dominante che lui voleva combattere attraverso la diffusione della cultura.  Si è  fatto esattamente il contrario di quello che voleva fare don Milani: si è deciso di restituire all'ignoranza e all'analfabetismo  autorevolezza sociale, considerazione massmediatica, insieme ad un diffuso credito trasversale. Negli ultimi vent'anni lo sforzo di creare una relazione quasi meccanica fra incultura e successo sociale è stato immenso e senza risparmio di energie. Dai politici, uomini di spettacolo, preti, personaggi pubblici, giornalisti di moda, si allunga la lista di coloro che si caratterizzano per la loro apparenza "popolare": rozzi, volgari, incolti, volutamente sprezzanti verso il pensiero ben articolato o coerente (spregiativamente bollato "intellettuale").
La classe dominante ha propagandato la sua stessa immagine in modo culturalmente sempre più basso: è sempre la classe padrona della lingua, certo; è sempre lei a scrivere leggi, gestire potere economico, potere politico, potere informativo. Nulla è cambiato rispetto alla rigidità dei recinti familiari del potere e della ricchezza (ricchi i figli dei ricchi, poveri i figli dei poveri e seppure questi ultimi riescono a risalire la china la percentuale è bassa e la salita è irta di ostacoli): è di moda oggi il termine di casta.  Ma per il raggiungimento di questo obiettivo è stato necessario rivalutare l'incultura affinché la conoscenza vera non creasse un popolo libero. E - forse ricordando anche don Milani che sosteneva che l'unico modo di insegnare fosse "porsi come modello" - ecco che il potere stesso si presenta come modello quanto più "popolare" sia possibile, parlando come una volta non avrebbe fatto neppure una persona con tre anni di scuola elementare, usando scurrilità, citando parole in libertà di attricette televisive quasi si trattasse di grandi filosofi o sapienti, utilizzando stereotipi linguistici e mentali che solo quarant'anni fa una persona di bassa e media cultura si sarebbe vergognata non solo a pronunciar ma perfino a pensare.

L'impatto è potente: se quello lì che parla così (sdogana parole e concetti triviali, scendendo al livello più basso, così infimamente popolare e che quindi è talmente simile a chiunque al punto da rappresentare la mediocrità di ciascuno, al punto che ognuno riesca ad immedesimarsi sentendolo così prossimo, così uguale) è tanto ricco e potente, evidentemente la scuola non serve a nulla. Anzi occorre riformarla! Ed ecco allora ad invocare più serietà,  più selettività, più meritocrazia, allungandola negli anni! Insomma: al punto da renderla  distante dalle esigenze della gente comune. Siamo dunque arrivati così alla convinzione che a "studiare non serve a niente", che "i soldi si fanno in un altro modo", che "il successo è dei furbi"…

Ovvio che il potere resta più che mai padrone della lingua e dei linguaggi che contano. Ma per impedire concorrenza o insidie di sorta ha rivalutato l'analfabetismo e l'incultura, cosicché l'incapacità di ragionare e di capire non sia più (come un tempo) motivo di timidezza o di aspirazione al progresso, ma motivo di vanto e fierezza.

E allora che lo si dica e lo si ripeta  e lo si scriva in ogni posto, nelle aule delle scuole elementari e nelle università che “…solo la lingua rende uguali e che ogni parola non imparata oggi è un calcio in culo domani.”





 


mercoledì 4 dicembre 2013

la fede o il salto nell'incerto



 " La fede è questo: il rispetto dell'incognito divino, l'amore di Dio nella coscienza della differenza tra Dio e l'Uomo, tra Dio e il mondo, l'affermazione del 'No' divino in Cristo, il fermarsi, turbati, davanti a Dio […]. La fede è la conversione, il radicale nuovo orientamento dell'uomo che sta nudo davanti a Dio, che per acquistare la perla di gran prezzo è diventato povero e che per amore di Cristo è pronto a perdere la sua anima […]. La fede non è mai compiuta, mai data, mai assicurata, è sempre e sempre di nuovo, dal punto di vista della psicologia, il salto nell'incerto, nell'oscuro, nel vuoto […]. Non vi è nessuna presupposizione umana (pedagogica, intellettuale, economica, psicologica, ecc..) che debba essere adempiuta come preliminare della fede […]. La fede è sempre l'inizio, la presupposizione, il fondamento. Si può credere come Galileo e come Greco, come fanciullo e come vegliardo, come uomo colto o come ignorante, come uomo semplice e complicato, si può credere nella tempesta e nella bonaccia, si può credere a tutti i gradini di tutte le immaginabili scale umane. L'energia della fede interseca trasversalmente tutte le differenze della religione, della morale, delle condotta e dell'esperienze della vita, della penetrazione spirituale e della posizione sociale. La fede è per tutti altrettanto facile e altrettanto difficile. "
                                    Karl Barth  -  Epistola ai Romani



…E’ notte e giorno, veglia e sonno, acqua e fuoco e vento, pace e violenza, ascolto silenzio e parola, luce e tenebra, svelamento e mistero,  nascita e morte, brezza e bufera, aridità deserto e manna, terra promessa  e attesa, disperazione e speranza, lacrime e risa, pianto e allegria, solitudine e comunità, prossimità e lontananza, già e non ancora,
 (in memoria di Karl Barth, teologo e pastore riformato svizzero morto il 10 dicembre 1968)

domenica 3 novembre 2013

...amo la morte perchè fà nuove tutte le cose...

"Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo! quanto mi hai fatto soffrire eppure quanto a te devo!  

Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza.

Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità!

Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello [...].

No, non posso liberarmi di te, perchè sono te, pur non essendo completamente te.

E poi, dove andrei?
A costruirne un'altra?
Ma non potrò costituirla se non con gli stessi difetti, perchè sono i miei che porto dentro.

E se la costruirò, sarà la mia Chiesa, non più quella di Cristo [...].

No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una pietra così debole, perchè ne fonderei un'altra su una pietra ancora più debole che sono io".

Ancora rileggendo Carlo Carretto chiedo la grazia e mi ostino a rimanere nella Chiesa. 
E' casa mia anche se a volte mi rimane stretta, fredda, distante... E pur tuttavia non ne potrei fare a meno. 

Riuscirei fare a meno di tante croste di cui il tempo l'ha appesantita:  riuscirei fare a meno di tanti preti che credono d'essere dei padrieterni, maneggioni, affaristi, piazzisti,...quasi volendo impegnarsi a creare maggiore indifferenza, scandali, ostilità, lontananza tra il popolo dato loro al pascolo.



In fondo anche per loro rimango perchè non si dica che la Chiesa escluda qualcuno e che in essa non ci sia posto per tutti...


Venticinque anni fa, il 4 ottobre 1988, nella festa di san Francesco d'Assisi, fratel Carlo si spegne a Spello dopo una lunga agonia.

Rimane ancora vivo e vitale il segno da lui lasciato in questo tempo, dove si arranca e a fatica non si smarrisce la strada.

"Ho scoperto che, fra tante cose belle e buone fatte da Dio, una non è meno bella, anzi è bellissima, ed è la morte.   E perchè?   perchè mi dà la possibilità di vedere cose nuove...
Non è che amo la morte perchè liquida le mie ultime forze, amo la morte perchè fà nuove tutte le cose...
Amo la morte perchè mi ridà la vita.
Amo la morte perchè credo nella risurrezione...
Credo al mio correre come ragazzino incontro al mio Dio [...].
ma più ancora credo alla morte perchè vedrò finalmente il regno, che quaggiù ho solo intraveduto e sognato...
Vieni dunque morte, mia morte!"





domenica 27 ottobre 2013

sono un servo inutile



Che strane cose accadono sotto questo cielo sempre grigio di una politica stagnante e ridotta a poca cosa, a miserie umane e starnazzamenti da cortile.

Che strane cose le frattaglie politiche che si dicono “pudicamente” laiche in nome di un brodino dove vi possono stare tutte le cose tranne quelle che fanno le differenze. Non si può citare la Bibbia (“quando non ci sono più visioni il popolo muore” Prov.29-18), è blasfemia ricorrere a don Milani; riferirsi a Maritain o a don Mazzolari è roba da giurassici, parlare di dottrina sociale della chiesa o accennare a Mounier a La Pira, a Lazzati, Bobbio,…si è troppo di parte…

E’ l’ora, in un tempo troppo dilatato, di un fare disancorato da radici culturali, apparentemente scevro da riferimenti e matrici di parte.

Non si tratta di rifarsi ad utopie, rispolverando bandiere e slogan e maître à penser già noti.

E’ invece urgente andare con la memoria a ritrovare quello spazio e desiderio e sincerità di cuore per rifarsi a quel realismo grazie al quale di nuovo calarsi nell’ordinario volendolo rendere pienamente, umanamente vivibile. 

Essere presenti nella storia sporcandosi le mani e scegliendo da che parte stare, avendo caro il chi si è creduto e a chi si è dato credito confidando nella testimonianza  di vita e nella nobiltà di pensiero. 

Come diceva Carrel nel suo Riflessioni sulla condotta della vita: “Ci siamo confinati nelle astrazioni anziché andare incontro alla realtà concreta. Certo, è difficile cogliere la realtà concreta e il nostro spirito sceglie il minimo sforzo. Forse la pigrizia naturale dell’uomo gli suggerisce la semplicità dell’astratto anzichè la complessità del concreto. E’ meno arduo salmodiare formule o sonnecchiare sui principi che cercare laboriosamente come sono fatte le cose e quale sia il metodo per servirsene.  Osservare è meno facile che ragionare.
E’ risaputo che scarse osservazioni e molti ragionamenti sono causa d’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità. Ma sono assai più gli spiriti capaci di costruire un sillogismo che quelli che  sanno cogliere esattamente il concreto”. 

Realismo è per esempio accorgersi che la logica del potere tende a perpetuare lo status quo al di là delle immagini diverse, delle maschere che il potere si dà e indossa. Persino nella maschera di chi si presenta come il puro servitore disinteressato e come l’incontaminato modello di politico.
Finanche nel volto dei devoti ingenui che imprecano contro la mala politica: il potere tende a perpetuarsi.

Realismo è domandarsi in verità fino a che punto si è disposti a darsi, fin dove spingersi per perdersi donandosi  alla politica, al servizio, agli altri.

Realismo è interrogarsi in verità fino a che punto si è disposti a rinunciare: ai propri interessi, alle proprie aspirazioni, alle proprie ambizioni.

Realismo infine sino a farsi da parte lasciando che altri s'affaccino, trovandoci preparati se alcuni vorranno il nostro aiuto.

Sino a poter dire "sono un servo inutile".

E’ il cuore dell’uomo che genera il perpetuarsi del potere.

Pasolini aveva visto giusto: l’emergere dopo il ’60 del potere reale e la relativa sconfitta dei politici. Cominciava così un nuovo totalitarismo e una elite capace di autoperpetuarsi.



mercoledì 18 settembre 2013

svelare le mistificazioni e le menzogne



 Il dibattito sui temi etici riaffiora a tratti con toni prepotenti e frasari volgari.  Fino a connotarsi di asprezze ideologiche, nascondendo a mio parere, un vuoto culturale, l’ottusità nel non voler cercare di leggere il tempo attuale, l’insipienza di una classe politica che trova funzionale strizzare l’occhiolino ad una chiesa arroccata sulle difensive di presunte e intoccabili verità assolute. Per poi cadere nel patetico quando inalbera vessilli di “valori non negoziabili”.   Alte vibrano le voci a difesa della famiglia tradizionale, naturale e cristiana.  Al vuoto mi sottraggo andando ad alimentare la mia ricerca di fede e di prassi, e non volendo smorzare la mia curiosità intellettuale, alle riflessioni di uomini e donne che hanno saputo fare della loro vita una testimonianza di ricerca e di tensione.  Così mi ritrovo a rileggere le considerazioni di Balducci fatte nel 1974 (in occasione della legge sul divorzio) presso la comunità dell’Isolotto di Firenze. Le rileggo, proponendole nel mio blog, non sottraendomi all’emozione di avere davanti pagine profonde e lucide, anticipatrici. Attuali perché generano, rimandano alla ricerca di un oltre, di un superamento, ciò che lui definiva “il mio esodo perenne”.    DDV

di Ernesto Balducci

Svelare le mistificazioni e le menzogne.
A mio modo di vedere, è bene affrontare il referendum traendone tutti i vantaggi possibili, una volta che una certa parte ne ha messo in moto la macchina e nonostante che esso, con tutta evidenza, voglia coprire una manovra con obbiettivi reazionari.
Credo che il primo vantaggio sia proprio quello di convocare le masse ed in specie le comunità cristiane, come qui, stasera, ad affrontare in modo critico questo come altri problemi in cui rimane inceppata, per mancanza di consapevolezza, la nostra crescita sociale. Affrontare questi problemi, per svelare tutte le mistificazioni, le menzogne, concretizzate e dissimulate all’interno di certi principi suggestivi.

Parlando da cristiano a gente che in gran parte si ritiene tale, ci tengo a dire che il momento che stiamo vivendo è proprio il momento in cui dobbiamo abbattere (noi ne siamo i primi responsabili) quella che chiamerei l’ideologia cattolica, come ideologia di copertura del mondo borghese, il quale mondo borghese trova vantaggio nel coprire i suoi obbiettivi di conservazione sociale con dei valori cosiddetti cristiani che hanno ancora una grandissima forza di suggestione nelle coscienze.
La difesa della famiglia cristiana è un aspetto dell’ideologia cattolica che, molto di più di quanto potremmo pensare,  nasconde la volontà di conservare un certo tipo di società e un certo tipo di sistema di rapporti di proprietà. Alzare quindi questo velo è in un sol momento recuperare la possibilità di un rapporto più vivace, più liberatorio col Vangelo e smascherare le reali intenzioni della classe dominante. Così quando i nostri vescovi hanno creduto di dover convocare i cattolici a una battaglia, la battaglia della indissolubilità giuridica del matrimonio in Italia, hanno fatto riferimento a un modello cristiano della famiglia e certo un tale riferimento non può non avere risonanza nella coscienza di una larga parte del popolo italiano, anche di quella che politicamente ha fatto delle scelte dissenzienti nei confronti della chiesa.

Non esiste un modello cristiano di famiglia
Che cosa si nasconde, però, dietro questo cosiddetto modello cristiano della famiglia? E’ lecito attribuire al messaggio cristiano un modello di famiglia quale quello che abbiamo ereditato dal passato e che ancora sopravvive? Ecco, la risposta è subito NO. Si tratta appunto di una menzogna, non di quelle architettate da chi sa quale mal intenzionato, ma di quelle menzogne che nascono per una specie di escrescenza storica progressiva, sulla spinta di altre ragioni che non sono di tipo ideale, ma pratico.
Non esiste la “famiglia cristiana”, essa è appunto un falso valore. Io vorrei mostrarvi come liberandoci da questa falsificazione, ricercando anche le ragioni per cui essa è nata e si è fatta valere e riferendoci con coscienza liberata alle esigenze evangeliche, noi ci mettiamo in movimento tra le forze che mirano a far crescere la nostra società e liberarla anche da altre schiavitù.
Che cosa intendiamo quando si parla di modello cristiano della famiglia? Noi possiamo riferirci o al particolare ordinamento giuridico della famiglia, quello che è stato elaborato lungo i secoli dalla chiesa cattolica, oppure ad un particolare concetto etico, morale della famiglia, che, anche indipendentemente dall’ordinamento giuridico-canonico, si è fatto valere da parte della società italiana. Per cui si dice che la famiglia tipica italiana è una famiglia di formazione cristiana.
Ora, spieghiamoci su questo punto. Intanto sta di fatto che quando noi parliamo della famiglia secondo l’ordinamento canonico, quello che per adesso rimane in prima gestione della Sacra Rota e dei Tribunali diocesani, noi non dobbiamo affatto ritenere che si tratti della traduzione giuridica di un ideale evangelico. Si tratta invece di una creazione storica, precisamente databile, di cui è responsabile la chiesa cattolica.
I primi cattolici non avevano un ordinamento giuridico proprio della famiglia. Essi vivevano la vita di famiglia, ed anche diremmo istitutivi, secondo il costume del tempo. Non c’era, per dir così, il matrimonio in chiesa; non c’era una anagrafe o un tribunale ecclesiastico  per i matrimoni, non c’era il prete, al matrimonio. I cattolici si sposavano come tutti gli altri. Non sentivano alcun bisogno di dare al loro matrimonio un ordinamento giuridico particolare all’interno del generale ordinamento giuridico della società in cui vivevano, specialmente in quella romana.
Ad esempio, là dove erano le famiglie a stabilire il matrimonio dei figli, i primi cristiani facevano come gli altri: il padre di famiglia destinava alla figlia un dato marito, d’accordo con la famiglia del promesso sposo, senza che i due interessati potessero aggiungere nulla, perché questo era il costume.
Inutile quindi andare a cercare nei primi cristiani un modello di “famiglia cristiana”. Così, per quanto riguarda il modello etico della famiglia, non esiste un concetto etico specificamente cristiano, nei primi secoli. C’è una visione, se vogliamo, di fede, teologale, cioè legata al riferimento a Cristo. Non esiste però un ideale di famiglia con particolari contenuti morali. La prassi familiare si modellava sul costume morale del tempo. Anche se è chiaro che il cristianesimo impose un rigore morale, un rifiuto di certe forme di depravazione, una condanna di certe degenerazioni; però non disse cose diverse da quelle che poteva dire l’etica degli stoici o dei pitagorici. Quindi il cristianesimo non si presenta con una sua etica familiare formulata nei primi tempi.

Come nasce il concetto di modello cristiano della famiglia
Solo quando la chiesa, dopo Costantino e precisamente con Giustiniano, acquista una responsabilità di tipo sociale, per cui tutti i momenti della vita sociale vengono gestiti dal clero, incomincia a formarsi un ordinamento matrimoniale cristiano che, come vedremo, si è poi accresciuto, si è arricchito, si è accreditato in ogni modo fino a trovare il suo sigillo nel Concilio di Trento e a diventare anche un modello di ispirazione per molti ordinamenti giuridici civili. Il codice napoleonico fu in gran parte tributario di questa tradizione giuridica della chiesa medioevale.
Tuttavia ci domandiamo se il matrimonio cosiddetto cristiano ha veramente obbedito alle esigenze evangeliche o non piuttosto alle esigenze della società del tempo. La risposta è chiara: la cosiddetta famiglia cristiana, con tutti i connotati giuridici ritrovabili nel codice canonico, con tutti i connotati etici ritrovabili nel costume esemplare, è un prodotto storico e, come tale, relativo.
Per cui io non riesco a capire, proprio dal punto di vista diremo dell’individuazione culturale, che significhi difendere in una società pluralistica un modello cristiano di famiglia, perché non so quale sia questo modello, perché non si dà un modello proprio del cristiano.
La famiglia cristiana, se noi la conserviamo come prodotto storico ereditario, nasconde invece in sé particolari pregiudizi, particolari difformazioni, particolari rapporti sociali legati allo sfruttamento che sono tutti da rifiutare.

Caratteristiche storiche delle famiglia cristiana da considerare superate.
 Quali sono queste caratteristiche storiche da considerare superate? Innanzitutto è chiaro che l’unità della famiglia cristiana usufruiva di un dato economico, era l’unità patrimoniale. Il padre di famiglia era l’unico responsabile del patrimonio familiare, era lui l’unica figura economica della famiglia. E quindi l’unità della famiglia, anziché essere il prodotto della scelta cosciente dei coniugi, era un portato fatale dell’indivisibile unità patrimoniale. Che cosa avrebbe potuto fare una buona donna cristiana, si fa per dire, di ceto povero, se avesse  avuto mille motivi per lasciare il marito: andare a morire di fame o essere rifiutata dalla società abbiente come donna deplorevole, di cattivi costumi, ecc. La donna era legata a questo giogo dell’indissolubile monarchia economica del padre di famiglia.
A reggere l’indissolubilità della famiglia, oltre a questa ragione economica, esisteva un ambiente cosiddetto monoculturale, cioè a cultura unica, per cui tutti gli elementi culturali dell’ambiente spingevano a ricercare la propria identità nella famiglia di appartenenza.
Una donna non aveva un suo mondo culturale. I figli non avevano un mondo culturale autonomo. Non c’erano spazi diversi per l’esperienza di vita. La famiglia rappresentava il luogo normale e continuativo della esperienza culturale. L’unità quindi si manteneva perché mancavano forze centrifughe , aperture di orizzonti diversi per i componenti della famiglia. Pensate, ad esempio, al legame quasi fatale fra il lavoro del padre e del figlio
In terzo luogo c’era la subordinazione della donna all’autorità maritale, che era una norma assoluta. L’attività pastorale della chiesa ha in questo una specifica responsabilità, perché il modello che si forniva alla donna era un modello di subordinazione al marito. La “donna cristiana” è quella che dice sempre di sì al marito, che non ha in nessun campo iniziativa propria, le cui virtù sono tutte una garanzia alla tirannide maschile e i cui compensi mistificanti sono l’essere l’angelo del focolare.
Perfino San Paolo porta riflessi della condizione sociale della donna dei suoi tempi, quando dice che la donna deve essere sottoposta al marito, o deve coprirsi il capo quando entra in assemblea perché il capo della donna è l’uomo.  San Paolo non rivela niente che abbia rapporto con la liberazione portata da Gesù Cristo Assume norme di comportamento proprie della società ebraica. Ma noi dobbiamo sapere che la fedeltà alla parola di Dio non è fedeltà ai modelli sociologici del comportamento, legati ad una certa fase dello sviluppo storico. La parola di Dio non assolutizza, non rende normativi quei modi di comportamento, ci esorta anzi a liberarcene.
E alla fine c’era il pessimismo sessuale, che svuotava la famiglia di ogni significato positivo di comunione spontanea a tutti i livelli e relegava la vita sessuale a una funzione di servizio in rapporto alla procreazione.
Il matrimonio è per i figli. In realtà, pensate che nel passato, anche in quel passato che certi nostalgici rimpiangono, il consenso libero della donna al matrimonio era una circostanza neanche presa in considerazione. La donna aveva così radicalmente accettato il modello impostole dalla società e dalla chiesa che aveva perfino vergogna a dire che desiderava prender marito; magari lo desiderava con tutta se stessa, ma tale desiderio rimaneva inibito. Doveva esser lei, la donna cercata. Doveva essere senza iniziative e con un’etica del comportamento femminile che voi conoscete bene.
La stessa definizione della donna era di tipo biologico. La donna si definiva in rapporto alla sua biologia: era vergine o madre. Non persona, come l’uomo, capace di decidere della propria vita indipendentemente dalla condizione biologica; ma legata strettamente a questa, con delle sfere di mortificazione terribili, come la donna che non ha sposato, la zitella, considerata una donna fallita.
Oggi ci troviamo nella situazione in cui lo sviluppo della società ha messo in crisi le componenti di struttura che sorreggevano un certo tipo di  famiglia cosiddetta cristiana. Abbiamo una crisi della famiglia che per molti è la crisi della famiglia cristiana, ma che invece è la crisi della famiglia tradizionale e niente altro.
Allora, un credente, quali doveri ha in questo momento? Non di stringersi di far quadrato attorno a un modello di famiglia che non ha più nessuna ragione storica di continuare, ma rifarsi all’esigenza evangelica, interrogarsi di fronte al Vangelo.
Ora, secondo me, il Vangelo, non ci dà nessun esempio di famiglia precisa. Anche la sacra famiglia è un’invenzione posteriore, borghese, perché la famiglia di Nazareth, non è un modello di famiglia, per il semplice fatto che, almeno nelle convinzioni di fede, Maria e Giuseppe non erano autenticamente marito e moglie. Quindi, presentare come modello di famiglia un modello in cui proprio l’aspetto principale non era integro, significa fare una mistificazione.


Indicazioni evangeliche.
 Occorre domandarsi piuttosto in che senso il Vangelo si apre a questa esperienza particolare della vita che è l’amore nella famiglia, nella linea della liberazione, cioè nella crescita secondo il disegno di Dio.
A me pare che ci siano dei punti fermo, questa volta autenticamente fermi, a cui fare riferimento in questo tentativo di recupero del significato evangelico che può avere la vita nell’amore, la vita familiare. Innanzi tutto , è sicuramente un’affermazione di fondo del Vangelo che dinanzi a Cristo non c’è nessuna differenza fra l’uomo e la donna, dinanzi a Cristo non c’è né maschio né femmina.
Quelle discriminazione desunte dalla realtà sociologica, che hanno un riflesso nella sacra scrittura, devono essere subordinate a questa che è l’autentica rivelazione in rapporto alla resurrezione: in Gesù Cristo la disparità tra l’uomo e la donna è abolita. Certo noi sappiamo che la parola del Vangelo non si presta a diventare – guai del  se lo facessimo – un fondamento per nuovi ordinamenti giuridici; perché la parola del Vangelo, come si suol dire, è parola profetica, cioè una parola che indica certe linee di crescita, le quali sboccano in una totale liberazione cristiana.
In secondo luogo, secondo il Vangelo, la fedeltà non è il risultato di una legge esterna che costringe, ma è un’espressione dell’amore.
Un’altra esigenza interna allo spirito evangelico è il rifiuto della strumentalizzazione, del rendere l’altro uno strumento di sé.
Espressioni bibliche quali. ”la persona umana è fatta a immagine di Dio”, “amate i vostri mariti come la Chiesa ama Cristo”, “amate le vostre mogli come Cristo ama la Chiesa”, per un credente sono un invito decisivo a rifiutare di fare dell’altra persona uno strumento di sé, si tratti dei rapporti fra coniugi, si tratti di rapporti familiari.
Questo rispetto della persona significa garanzia del rapporto veramente comunitario, perché tra rapporto comunitario e rapporto di società stabilito dalla legge c’è una differenza di qualità: il rapporto comunitario in tanto è, in tanto vive, in quanto trova la sua sorgente nel libero consenso e nel rispetto spontaneo della coscienza verso l’altro; i rapporti societari invece sono quelli che si stabiliscono per forza di legge.


La famiglia è un’istituzione legata alle condizioni storiche.
 Siamo all’ultimo punto: non dobbiamo cadere in un così ingenuo evangelismo da credere che la famiglia non interessi la società, che debba essere riferita soltanto all’esperienza spirituale.
Ogni espressione dell’uomo, ma la famiglia in particolar modo, in quanto si innesta nei rapporti sociali generali, ha bisogno di istituzionalizzarsi. La istituzionalizzazione è un momento di serietà umana, il momento in cui si traduce in norma esterna la responsabilità di fronte alla società intera.
Però, non è con questo momento istituzionale che si definisce la famiglia. Il momento istituzionale è quello in cui l’esperienza della famiglia assume rapporti e responsabilità con l’insieme della realtà sociale. E la società, come tale, ha bisogno di tutelare la famiglia, di farsene garante in qualche modo, di proteggerne e favorirne lo sviluppo. Ma questo momento, lo ripeto, è un momento del tutto legato alle condizioni storiche e varia a seconda del mutare delle condizioni storiche; perciò oggi c’è bisogno di una nuova istituzionalizzazione della famiglia.
La famiglia è una creazione continua. Nella Bibbia c’è la poligamia, poi si è acquisito il concetto della famiglia monogamica, che forse è un concetto irrinunciabile. Però non si deve dire che è la natura che l’ha voluto, perché questo significa attribuire alla natura astratta delle conquiste storiche che sono invece relative anch’esse.
Forse la famiglia dovrà cambiare ancora forma, dovrà cambiare struttura. Il concetto del diritto naturale è un concetto dell’immobilismo borghese, con cui si sono voluti rendere eterni e immutabili alcuni rapporti che erano funzionali alla società borghese. E qual è il criterio con cui la famiglia deve cambiare struttura? E’ quel di più di libertà che l’uomo deve avere. Quando diciamo libertà non parliamo della libertà soggettivistica identica al libero arbitrio, ma di una libertà in cui veramente l’esistenza dell’uno sia garanzia e condizione della libertà di tutti gli altri.
Questa crescita della famiglia presuppone un nuovo diritto familiare in cui dovrà essere anche previsto il caso nel quale la fedeltà reciproca di indissolubilità non è più possibile. Cioè la clausola del divorzio come verifica di un fallimento dell’esperienza e come legittima dei due, che hanno portato a termine un’esperienza fallita, di crearsi una esistenza coniugale. Questo la legge lo può fare; a rigore, lo deve fare. Però il diritto di famiglia non è questo. Ecco perché dovremo, una volta superata la battaglia sul referendum, considerarci continuamente mobilitati per favorire in Italia una modificazione profonda del diritto di famiglia, perché esistono già ormai le condizioni di coscienza generali e perché certe norme giuridiche della tradizione siano abolite e superate.
E naturalmente, quando si fa questa battaglia per un nuovo tipo di famiglia, si deve fare anche una battaglia per un nuovo tipo di società, perché se i rapporti economici rimangono quelli che sono poco vale il modificare i rapporti giuridici. Al più avremmo un aggiornamento neo-capitalistico della famiglia.
In ogni caso, una battaglia per la famiglia che si apre con il referendum, non si chiude con il referendum. Però dobbiamo dirci che noi, in quanto cristiani, non abbiamo niente, nessun modello nostro da difendere. Noi dobbiamo ricercare con gli altri un modello giuridico ed etico di famiglia, perché non abbiamo privilegi di nessuna sorta come credenti.
Come credenti ci compete l’onere e il privilegio, se volete, di essere fedeli alle ispirazioni evangeliche fondamentali; ma queste ispirazioni non sono da tradurre come modello etico-giuridico, poiché sono una spinta continuamente trasformante della realtà storica, disponibili a sempre nuove forme di ordinamento familiare.


martedì 27 agosto 2013

tu sei mare, noi siamo mare



Tra le acque del grande mare, i cui flutti lambivano il cielo, correva raggiante una piccola giovane onda.  Saltava e correva, s’inabissava e si lasciava muovere dalle correnti sino a sollevarsi e farsi arruffare dal vento spruzzando lucenti perle d’acqua dalla gioia.
Era un’onda felice.
Felice d’essere un’onda, felice d’essere quel che era.
Un giorno in lontananza all’orizzonte vide, appena affiorante l’acqua, qualcosa che sporgeva prepotente.
Avvicinandosi sempre più scorse nitidamente rocce, scogliere, spiagge.
S’accorse così che le altre onde, quelle che erano andate già avanti, tra gli scogli e le spiagge andavano a frantumarsi, infrangendosi in mille spruzzi fino a scomparire.
Di quelle onde non rimaneva più nulla.
Così la piccola giovane onda da felice e spensierata cominciò ad intristirsi.
Il vento, sospingendola con forza verso gli scogli e le spiagge, le impediva di restare ferma e di certo non poteva ritornare indietro. 
Neppure poteva inabissarsi nascondendosi nel profondo del mare.
Passandole accanto un’altra onda, quella più grande, le chiese che cosa le fosse successo, poiché non l’aveva mai vista così triste.
La giovane onda subito le rispose piangendo: “…non vedi tu gli scogli...le spiagge?…non vedi come andremo a finire?  Non capisci che andrai a frantumarti fino a scomparire?...”.
Con un velo di commozione la grande onda rispose benevola: “Mia piccola leggiadra onda tu sei mare, noi siamo mare…”.

Tra gli appunti presi ad un seminario di formazione, avevo annotato alcuni flashes di questa storiella narrata dal relatore.  Ero nell’aprile 1998.
Tutta la nostra vita è disseminata di date che narrano gioie, dolori, nascite, morti.
Quella data ha espresso un dolore, una di quelle ferite le cui tracce, pur sbiadendosi nel tempo, non scomparirà mai.
Ha scisso la mia vita lacerandola, rappresentandola in un prima e un dopo.
La vita di chiunque non è un fatto privato, o meglio non è solamente un semplice accadimento che tocca  (s)convolgendo l’esistenza di un individuo.
Non è “cosa nostra”, una roba mia strettamente personale. La vita non è racchiudibile (solo) nel mio piccolo cuore di carne.
Mi trovo a considerare che la mia vita faccia parte di un oceano immenso come l’onda del mare.
Rifletto che nulla andrà perso e che ogni (apparentemente) irrilevante gesto d’amore, ogni esuberante sussulto di gioia di vivere, ogni fremito di passione, ogni balbettio di felicità come ogni lacrima versata e ogni dolore patito sia solo una minuscola goccia che forma l’oceano. Ogni cosa fa parte del tutto cui appartengo, che mi appartiene.  
“Tu sei mare, noi siamo mare”.






lunedì 22 luglio 2013

pregare è come fare posto ad un tu


Qualche giorno a Roma per lavoro. Ospite presso una struttura dei monaci trappisti, presso l’abbazia delle Tre Fontane. Accanto, a ridosso di una piccola collina chiamata Betlemme, in mezzo agli Eucalipti, vive una piccola ma vivace comunità religiosa, la Fraternità  delle Piccole Sorelle di Gesù affascinate dall'ideale di Charles de Foucauld.
 
Un sito denso di storia cristiana: qui l'apostolo Paolo viene martirizzato per decapitazione; il tribuno Zenone e altri 10203 soldati cristiani, dopo aver terminato i lavori di costruzione delle Terme imperiali, furono travolti dalla follia omicida delle persecuzioni di Diocleziano; attraversando i tempi delle comunità monastiche greche, arrivando a comunità benedettine cluniacensi, alla congregazione cistercense...

Ho partecipato a un paio di momenti delle loro preghiere, compieta e lodi. 

Pregare...  Mi sono intrattenuto con un monaco il quale, nella sua dolce intonazione francese, mi ha passato una bella, suggestiva immagine della preghiera: "Pregare è come fare posto ad un tu senza il quale l'io non sarebbe...".

Ho ruminato questa frase, l'ho trascinata in varie direzioni facendola cantare, piegandola in riflessioni ardite.

Il concetto di preghiera s'avvicina all'interpretazione.  L'orante, l'oggetto e il tu cui si rivolge la preghiera: ciascuno di questi tre elementi è soggetto di possibili analisi interpretative (senza scomodare la semiologia e l'ermeneutica).

Credo che in tutte o quasi le religioni e in ciascuna e diversa forma di preghiera vadano a mescolarsi le più varie e ricche interpretazioni. Preghiera di lode e ringraziamento, di offerta e d'esultanza, di guarigione, consolazione e di lutto, di lotta, e di contemplazione, di ricerca e di liberazione, personale e comunitaria, di meditazione e di ricerca, di benedizione, di domanda...

....e' quella di domanda la preghiera che tiene il primato...

....pur sapendo che l'ascolto è sempre relativo, soggetto a continua interpretazione.

"Pregare è come fare posto ad un tu..."...
...non ci bastiamo, mi rendo conto di non bastare a me stesso, non mi sono sufficiente.
Così la preghiera è quel balbettio (di cuore, di labbra, di mente), che nasce nel momento in cui avverto la mia non sufficienza, la mia debolezza.  Cerco così di interloquire con qualcosa/qualcuno facendogli spazio, permettendogli così d'entrare e d'esistere nel mio mondo.
Pregare è quel cercare di trovare risposta al bisogno più profondo, alla speranza più temeraria dell'esistenza.
E' cioè permettere all'io più intimo e autentico di aprirsi sino a dilatarsi e fare spazio per accogliere.
E' scavare sino ad espandere quel pertugio attraverso il quale permettere il passaggio di voci e luci "rivelatrici", portatrici di vita nuova.

"Pregare è come fare posto ad un tu..."...
 ...è un esercizio arduo, poiché, lo sperimento, l'io che sono è così dispotico da chiudere ogni via d'entrata...
 ...e non di rado capita quindi che la preghiera, pur bella e vibrante tra le labbra, sia di compiacimento, d'esaltazione e ammirazione: l'orante ha come oggetto se stesso. E' insieme bisogno e appagamento, domanda e risposta insieme.
Il tu, quel soggetto cui si rivolge la preghiera, a volte perde così consistenza sino ad evaporare in un grande io.

Eppure:  "Pregare è come fare posto ad un tu..."...
....anche se quel tu a volte sfugge, è poco conosciuto; oppure è persino misterioso, inaccessibile, lontano o forse...inesistente...

Trovo così quasi naturalmente opportuno, procedendo nelle mie riflessioni, accostare la preghiera all’umiltà.

E' questa  la condizione di partenza: porta a riconoscere l'insufficienza di se', quella fragilità strutturale, quel bisogno di aiuto; quell'ammettere d'essere un io indissolubilmente aperto e legato al tu.  

Se così è allora la preghiera è espressione decisa contro ogni tentativo di assolutizzazione,  è quel segno che rinvia al di là di ogni dogmatica certezza. 
E allora mi ritrovo a pensare che pregare non è un magnificare un assoluto, ma è l'affermare un relativo. 

E' fare in modo che si sappia la nostra fragilità e che quel tu chiamato dio si chini sino a raccogliere la nostra voce.  
E noi, sino ad ascoltare la sua.
 















martedì 2 luglio 2013

canta e cammina

Ho percorso in auto un tratto della strada francigena per arrivare al mio buen retiro.  Un paio di uomini, zaino in spalla e sacco a pelo mi hanno catturato lo sguardo, riaccendendo il ricordo di vagabondaggi giovanili. 

Gli ingredienti per mettersi in cammino sono vari: coraggio mescolato ad incoscienza, senso dell'avventura, inquietudine...

Così si procede su strade poco battute, ci si attarda con lo sguardo a scrutare nuovi paesaggi. Si spera in un tempo clemente. Ci si ìnoltra per vie impervie, affidandosi a segnaletiche dubbie. Si superano ostacoli, il cuore si dilata e si vive un tempo intriso di precarietà.

La sosta è in ripari di fortuna, o alla meglio in dormitori attrezzati e poi, ritemprati, si affronta di nuovo il viaggio. 

Sulla strada. 
Non si è semplici nomadi senza mete, senza qualcuno che attende. Sulla strada si è spinti, chiamati sino a cogliere ad ogni passo la consapevolezza di esseri inquieti.

Desiderosi d’oltre e d’a(A)ltro, dal cuore insaziabile, dallo sguardo in perenne ricerca d’orizzonti nuovi da scrutare, indaffarati a lenire nostalgie d’assoluto.

Da sempre, pellegrini e vagabondi hanno percorso sotto lo stesso cielo strade aperte all’incontro con se stessi, con la trascendenza, con altri erranti. Esseri inquieti hanno cercato; e come non considerare il cercare una categoria dello spirito? L’uomo sazio, tronfio di se' ritiene di avere già tutto…anche Dio.  

 Il viaggio come ricerca è una nobile espressione di un cammino spirituale, di un percorso che parte da una lucida e profonda insoddisfazione di se’  e apre alla possibilità di un’esistenza più piena, più autentica, più sensata. Certo più rischiosa, più incerta e insicura. Ricerca della verità, ricerca d'assoluto, ricerca di felicità,...

Si sta allentando quella tensione che porta la nostra gioventù ad intraprendere viaggi alla scoperta di se’, pellegrinaggi su strade della sorgente di vita, viaggi d’iniziazione umana (cristiana, spirituale).

C’è un indebolirsi della figura di Siddartha, le nostre fibre si sono arrese alla mediocrità di viaggi  super organizzati, cellulari satellitari e iPhone, infarciti di spiritualità usa e getta propinata da sacerdoti e teologi à la page e azzimati.

Quell’On the road di Kerouac rimane opera letteraria emblematica d’una generazione ormai sepolta.   

Eppure il rinnovarsi del nostro tempo avviene ancora attraverso il cammino, fatto a piedi, gravido d’avventure e incontri imprevisti, generante audacia e speranza, ravvivante la fiducia nell’uomo. 

On the road, a piedi, in autobus, in autostop; permette d’osservare, ascoltare, scoprire, sostare, conoscere, contemplare.

Tra le pagine dei Vangeli scopriamo che Gesù vive prevalentemente on the road, si fa compagno di strada,  addirittura identificandosi con la strada (“..io sono la via..”  Gv.14, 1-6) e dopo di lui e prima di lui donne e uomini inquieti e curiosi, dal cuore insoddisfatto eppure pieno di domande, si sono incamminati sotto questo cielo incontro al destino del viaggio indossando calzari e tuniche comode, bisacce leggere.  

 Da Occidente ad Oriente il cammino come ricerca, il pellegrinaggio, si esprime come l’attraversamento, nel tempo e nello spazio, verso le mete intraviste come patria del cuore, come viaggio verso il centro dell’esistenza, al proprio cuore, luogo dell’incontro per eccellenza.

Come sanno i viandanti sotto questo cielo, come è scritto nelle pagine dei Racconti di un pellegrino russo in semplicità, in povertà, in sobrietà s’impara che la vita (anche la vita cristiana) è dinamismo e slancio continuo, facendo posto all’imprevisto, all’incognita, all’estraneo, al diverso. 
Mettendo in conto l'abbandono di categorie recanti assolute certezze, dogmi inossidabili.

E poi…s’impara a cantare: “Canta come cantano i viandanti, senza però interrompere il cammino. Canta per consolarti nella fatica ma non fermarti ai bordi della strada: canta e cammina…canta con la voce, canta con il cuore, canta con la bocca, canta con la tua vita. Sii tu quel canto che vuoi cantare: se la tua vita è nuova , tu sarai il canto di Dio” (Agostino, Serm. 256).