martedì 21 luglio 2015

un punto zero



Ho sempre pensato che fossero le risposte a rendere interessanti le persone. Così degne d’ascolto e attenzione.
Consideravo che più risposte si conoscessero più intelligenza, cultura e studio emergessero.  Ero convinto del fatto che più la persona fosse dotata di pareri e soluzioni, maggiore doveva essere la sua saggezza e il suo ingegno.

Mi sono ricreduto da quando sono padre.
Sono i bimbi che di continuo chiedono ai padri risposte certe e definitive a domande a volte anche incredibili.

Ritorno bimbo con mio figlio e ora coltivo più domande aperte che risposte definitive. Non riescono più a darmi soddisfazione opinioni travestite da certezze consolidate, verità dogmatiche inossidabili.
Non rinuncio a interrogarmi, a investigare ciò per cui credo valga la pena.  

In questi giorni ho ricevuto nei miei uffici i genitori di Giulia, una bimba d’una manciata di anni che, a detta della mamma “va in arresto cardiorespiratorio per niente”.
Giulia mi è descritta come una bimba “che c’é ma non si sente, la sua è una presenza che non passa inosservata, ma non respira perché al suo posto c’è un macchinario che dà l’ossigeno di cui ha bisogno, giorno e notte, non cammina”. …”ma c’è!” a quest’affermazione quasi gridata dal papà ci si ritrova a sorridere tutti e tre nel mio ufficio mentre porgo loro un caffè.

Mi raccontano di ospedali e cure, di pellegrinaggi e santuari, di medicina tradizionale e fiori di Bach.
Giulia non riesce a reggere nelle mani nulla, non riesce a fissarti con lo sguardo. Sembra non ci sia alcuna relazione. Eppure ogni tanto, quando meno te lo aspetti, alza il pollice e ti sorride con uno sguardo accattivante.  “Verrebbe voglia di mangiarla” sussurra il papà.
Con versetti ormai noti, impercettibili quasi ad orecchie estranee, Giulia sembra chiedere “tante grattatine lungo i fianchi e nella schiena” aggiunge la mamma.

Papà Carlo esprime un concetto bellissimo: “Giulia ci fa scendere le scale mentre noi avremmo voluto salirle”.

Già anche il fondo delle scale ha un senso e forse è da quello che occorre riandare, avere il coraggio di ripercorrere l’esistenza, il vivere quotidiano, dalla scala che porta alla cantina.

Quasi in contemporanea papà Carlo e mamma Gloria insistono su un punto: “Non siamo rassegnati, neanche minimamente masochisti della rinuncia, non abbiamo mai amato né desiderato la sofferenza… non ci accontentiamo di gioie fittizie.   E’ una gioia reale, abbiamo imparato a stare bene anche con Giulia, la nostra unica figlia”.
Riprende Carlo: “non sto dicendo che non sia uno scandalo, ma è uno scandalo che si chiama Giulia, con due occhi bellissimi e dei chiari capelli mossi …ed è mia figlia…”.

Ci sono stati attimi di commozione. E le mani di mamma Gloria accolgono quelle del suo compagno.
Poi riprende: “io mi metto davanti a Giulia e dico ma cazzo mi hai tolto tutto… non hai niente di quello che io volevo”.

Ritrovo in queste parole un punto di contatto profondo con quanto Simone Weil diceva a proposito del suo punto zero. Dove sei ridotto a cosa, spogliato di tutto, dove non conti nulla e sei uno zero assoluto, né ci sono segni di relazione che ti significano e danno vita e senso, né nudo e materiale contatto umano.  Quando tutte le attese sono deluse.  E’ lì che t’immobilizzi e forse pare di entrare in contatto con un’altra realtà. Un punto zero come luogo di pura contemplazione.

In fondo qualsiasi genitore per un figlio si aspetta tutto il meglio: che sia sano, che parli e cammini, che sia bello, che sia buono e intelligente,..
Invece nulla di tutto ciò: Giulia è arrivata e di tutto ciò non ha niente.

Gli abitanti del limite, gli abituali residenti del punto zero, senza neppure averlo scelto, riaprono domande, non pongono certezze.
Il punto di domanda apre al giorno per giorno, all’osservazione attenta e instancabile, a riflessioni anche ardite spalancando lo sguardo sull’orto della fede dove grazia e disgrazia s’intrecciano.
Tutte le teodicee del mondo, con le loro interpretazioni e ipotesi, Dio c’è/non c’è, punisce/non punisce, benedice/maledice s’inchinano alla misericordia con cui verremo abbracciati.

L’handicap non rivela né l’impotenza né la potenza di Dio; forse svela solo il limite dell’umano, di chi lo porta subendolo e di chi lo guarda.
Neppure può essere benaugurante la morte d’una bimba come Giulia, quasi grazia affrancatrice.
Io so solo che Gesù, la sola reazione che ha avuto davanti ad un bimbo morto, è stata che gli è venuto voglia di farlo resuscitare.

Se noi i miracoli non li sappiamo fare l’unica cosa che ci rimane, è il silenzio, la riscoperta della contemplazione. Aprirci alla preghiera muta, davanti al mistero.

Saluto papà Carlo e mamma Gloria e pur essendo la prima volta che ci incontriamo, nasce spontaneo un abbraccio che dice condivisione.


lunedì 13 luglio 2015

“amoriser le monde”



In prima battuta l’ho apprezzato per alcuni suoi libri (uno in particolare Dialogo della liberazione) oltre trentanni fa; e poi leggevo i suoi interventi sulla rivista quindicinale Rocca, dove teneva una rubrica fissa.  Testimone autorevole che firma un’idea di vita e di fede.

Più tardi lo conobbi “dal vivo” all’Associazione Ore 11. Lì siamo quasi di casa se non altro perché da un po’ di anni, a Trevi, nel meeting estivo, cerchiamo un ristoro per l’anima. 
E puntualmente siamo sfamati e dissetati.

E’ un appuntamento fisso, per noi adulti il convegno e per i bimbi il “convegnino”.

Lì fratel Arturo Paoli era ospite abituale. Il “nonno Arturo”, come i bimbi lo chiamavano, intratteneva noi adulti con la sua appassionata narrazione di vita e di fede.

Indicava segni, la sua parola faceva baluginare nel cuore e negli occhi speranze di vita; percorsi arditi.

Tutto cominciò nella sua città di Lucca, dove nacque centodue anni fa.

(Nella Chiesa di San Michele in Foro sua parrocchia di origine, si celebreranno i funerali mercoledì 15 luglio prossimo).

Quando aveva otto anni, sul sagrato della sua chiesa, dove ogni giorno giocava con i compagni, vide scorrere il sangue, al termine di uno scontro tra fascisti e socialisti che lasciò a terra due morti e decine di feriti. «Gli uomini non si vogliono bene, il nostro compito è impegnarci per costruire la pace»: gli disse sua madre, la sera a casa, dopo averlo tranquillizzato.

Ricordava spesso questo fatto tragico.

92 anni dopo – e a pochi giorni dal compierne 100, oltre cinquanta dei quali vissuti lontano dall'Italia, in particolare nell'America Latina, ignorato e dimenticato perché il Vaticano non gradiva le sue idee progressiste per costruire la pace – fratel Arturo Paoli è ritornato lì, dove è partita la sua vita di profeta della libertà. E dove nacque, memore delle parole della madre, la sua teoria dell’“amorizzare” il mondo, fonte d’ispirazione di quella teologia della liberazione che negli anni Settanta infiammò la chiesa sudamericana contro le dittature.

Arturo Paoli, Piccolo Fratello di Foucauld - Giusto tra le Nazioni e insignito nel 2006 della Medaglia d'oro al valor civile per aver salvato ottocento ebrei durante la seconda guerra mondiale – ha celebrato nel novembre del 2012 la messa nella “sua” chiesa di San Michele.      E’ stato un dono, un omaggio da parte della comunità ecclesiale, per festeggiare i cento anni di vita di fratel Arturo ma è stato anche un evento che ha coronato la riconciliazione definitiva con la Chiesa, iniziata nel 2005 con il suo rientro in Italia. L'anno dopo l'arcivescovo di Lucca gli affidò la canonica di San Martino in Vignale, sulle colline intorno alla città, che da allora è diventata meta di amici e fedeli provenienti da ogni parte d'Italia per ascoltarlo.  Si rimarrebbe ore ad ascoltarlo.

Ha parola chiara, profonda, va dritta al cuore.  Con quella passione, la forza e l'invettiva di sempre, della sua visione del Cristianesimo non come teoria, ma come pratica di vita, il cui unico fine è “amorizzare” il mondo e non proteggere ricchi e potenti.

Sino all’ultimo non le manda a dire; non risparmia critiche, imputando alla Chiesa una magnificenza di apparati e manifestazioni a suo giudizio inutili e difendendo un'altra teologia «nata a Nazareth – dice – dalle mani callose di Gesù e non nelle accademie». Quella teologia da lui vissuta, corpo e anima, dentro le favelas e le città dell'America Latina, dove fu protagonista a fianco di chi lottò e morì per la libertà. E dove lui stesso fu condannato a morte dalla dittatura militare argentina, da cui riuscì a scappare rifugiandosi prima in Venezuela e poi in Brasile, dove rimase fino al rientro in Italia, poco più di dieci anni fa.

Ciò che la vita ci presenta è sempre dono per chi ha gli occhi della fede; spesso quello che noi viviamo non è quello che abbiamo immaginato.  Anche fratel Arturo, la sua vita di sacerdote, non l'aveva pensata così. L'allontanamento dall'Italia, infatti, gli fu imposto, anche se, ha sempre ammesso di vederlo come un privilegio che gli è stato concesso. «Sono felicissimo – diceva – della vita che non ho scelto». Lui – fattosi sacerdote nel 1940 «non pensando a un servizio di chiesa – confessa - ma per seguire un Cristo annunziatore di pace e di libertà tra tutti gli uomini» – sapeva benissimo quello che voleva fare: costruire la pace e seminare un po' d'amore, in nome della libertà e dell'uguaglianza, sempre dalla parte dei perseguitati, dei deboli, dei poveri.

Era un prete scomodo. Di quelli che poi tracciano scie di luce nella storia della chiesa, segnando il passo per molti assetati e affamati di Dio.

E alla Chiesa degli anni Cinquanta – divenuto nel frattempo vice assistente nazionale della Gioventù dell'Azione Cattolica – non poteva tacere quello che vedeva e non gli piaceva.

Sostenne, per esempio, che «la Chiesa sta perdendo le masse popolari, sempre più accusata di essere la protettrice di ricchi e potenti, di chi ha e non vogliono dare» e che «non è giusto morire di fame in una società dove c'è tanta gente che muore per il troppo mangiare» e ancora «sulla croce dell'economia capitalista è stato inchiodato il povero».

Così, nel 1954, per lui fu trovato un posto da cappellano sulle navi degli emigranti italiani diretti in Argentina. Sull’oceano, durante una traversata, fratel Arturo incrociò l'esperienza di un fratello della congregazione di Charles de Foucauld: decise di farla propria, andando nel deserto per quattordici mesi come novizio.

Mai, assolutamente mai nulla succede a caso!

Ed è come piccolo fratello che nel 1957 rientrò in Italia, per fondare, dopo aver lavorato anche come magazziniere in Algeria e aver aiutato i più poveri durante la guerra algerina, una comunità tra i minatori del Sulcis, in Sardegna.

Ancora alle autorità vaticane le sue prediche erano sgradite, così gli fu suggerito di lasciare definitivamente l'Italia. Era il 1959. Non è più tornato, fino al 2005. Ignorato e dimenticato dal suo Paese e dalla sua città per decenni, mentre lui combatteva, con l'unica arma dell'amore, contro le dittature dell'America Latina.

Il primo importante riconoscimento per fratel Arturo è arrivato da Israele che, nel 1999, gli ha concesso il titolo di Giusto tra le nazioni e ha inserito il suo nome nel Giardino dei Giusti di Gerusalemme. Con altri sacerdoti nel 1940 fratel Arturo riuscì a mettere in salvo oltre ottocento ebrei dalle persecuzioni fasciste e naziste, nascondendoli nel seminario arcivescovile di Lucca.


Infine l’abbraccio col papa Francesco nel gennaio scorso.

E la contentezza riverberava dai suoi begli occhi lucenti, ricchi di vita, di fede e amore.