In prima
battuta l’ho apprezzato per alcuni suoi libri (uno in particolare Dialogo
della liberazione) oltre
trentanni fa; e poi leggevo i suoi interventi sulla rivista quindicinale Rocca,
dove teneva una rubrica fissa. Testimone
autorevole che firma un’idea di vita e di fede.
Più tardi lo
conobbi “dal vivo” all’Associazione Ore 11. Lì siamo quasi di casa se non
altro perché da un po’ di anni, a Trevi, nel meeting estivo, cerchiamo un ristoro per l’anima.
E puntualmente
siamo sfamati e dissetati.
E’ un
appuntamento fisso, per noi adulti il convegno e per i bimbi il “convegnino”.
Lì fratel Arturo
Paoli era ospite abituale. Il “nonno Arturo”, come i bimbi lo chiamavano,
intratteneva noi adulti con la sua appassionata narrazione di vita e di fede.
Indicava
segni, la sua parola faceva baluginare nel cuore e negli occhi speranze di
vita; percorsi arditi.
Tutto
cominciò nella sua città di Lucca, dove nacque centodue anni fa.
(Nella
Chiesa di San Michele in Foro sua parrocchia di origine, si celebreranno i
funerali mercoledì 15 luglio prossimo).
Quando
aveva otto anni, sul sagrato della sua chiesa, dove ogni giorno giocava con i compagni, vide
scorrere il sangue, al termine di uno scontro tra fascisti e socialisti che
lasciò a terra due morti e decine di feriti. «Gli uomini non si vogliono bene,
il nostro compito è impegnarci per costruire la pace»: gli disse sua madre, la
sera a casa, dopo averlo tranquillizzato.
Ricordava
spesso questo fatto tragico.
92 anni dopo
– e a pochi giorni dal compierne 100, oltre cinquanta dei quali vissuti lontano
dall'Italia, in particolare nell'America Latina, ignorato e dimenticato perché
il Vaticano non gradiva le sue idee progressiste per costruire la pace – fratel
Arturo Paoli è ritornato lì, dove è partita la sua vita di profeta della
libertà. E dove nacque, memore delle parole della madre, la sua teoria dell’“amorizzare”
il mondo, fonte d’ispirazione di quella teologia della liberazione che negli
anni Settanta infiammò la chiesa sudamericana contro le dittature.
Arturo Paoli, Piccolo
Fratello di Foucauld - Giusto tra le Nazioni e insignito
nel 2006 della Medaglia d'oro al valor civile per aver salvato ottocento ebrei
durante la seconda guerra mondiale – ha celebrato nel novembre del 2012 la
messa nella “sua” chiesa di San Michele.
E’ stato un dono, un omaggio da parte della comunità ecclesiale, per
festeggiare i cento anni di vita di fratel Arturo ma è stato anche un evento
che ha coronato la riconciliazione definitiva con la Chiesa, iniziata nel 2005
con il suo rientro in Italia. L'anno dopo l'arcivescovo di Lucca gli affidò la
canonica di San Martino in Vignale, sulle colline intorno alla città, che da
allora è diventata meta di amici e fedeli provenienti da ogni parte d'Italia
per ascoltarlo. Si rimarrebbe ore ad
ascoltarlo.
Ha parola
chiara, profonda, va dritta al cuore.
Con quella passione, la forza e l'invettiva di sempre, della sua visione
del Cristianesimo non come teoria, ma come pratica di vita, il cui unico fine è
“amorizzare” il mondo e non
proteggere ricchi e potenti.
Sino all’ultimo
non le manda a dire; non risparmia critiche, imputando alla Chiesa una
magnificenza di apparati e manifestazioni a suo giudizio inutili e difendendo
un'altra teologia «nata a Nazareth – dice – dalle mani callose di Gesù e non
nelle accademie». Quella teologia da lui vissuta, corpo e anima, dentro le
favelas e le città dell'America Latina, dove fu protagonista a fianco di chi
lottò e morì per la libertà. E dove lui stesso fu condannato a morte dalla
dittatura militare argentina, da cui riuscì a scappare rifugiandosi prima in
Venezuela e poi in Brasile, dove rimase fino al rientro in Italia, poco più di dieci
anni fa.
Ciò che la
vita ci presenta è sempre dono per chi ha gli occhi della fede; spesso quello che
noi viviamo non è quello che abbiamo immaginato. Anche fratel Arturo, la sua vita di
sacerdote, non l'aveva pensata così. L'allontanamento dall'Italia, infatti, gli
fu imposto, anche se, ha sempre ammesso di vederlo come un privilegio che gli è
stato concesso. «Sono felicissimo – diceva – della vita che non ho scelto». Lui
– fattosi sacerdote nel 1940 «non pensando a un servizio di chiesa – confessa -
ma per seguire un Cristo annunziatore di pace e di libertà tra tutti gli
uomini» – sapeva benissimo quello che voleva fare: costruire la pace e seminare
un po' d'amore, in nome della libertà e dell'uguaglianza, sempre dalla parte
dei perseguitati, dei deboli, dei poveri.
Era un prete
scomodo. Di quelli che poi tracciano scie di luce nella storia della chiesa,
segnando il passo per molti assetati e affamati di Dio.
E alla
Chiesa degli anni Cinquanta – divenuto nel frattempo vice assistente nazionale
della Gioventù dell'Azione Cattolica – non poteva tacere quello che vedeva e
non gli piaceva.
Sostenne,
per esempio, che «la Chiesa sta perdendo le masse popolari, sempre più accusata
di essere la protettrice di ricchi e potenti, di chi ha e non vogliono dare» e
che «non è giusto morire di fame in una società dove c'è tanta gente che muore
per il troppo mangiare» e ancora «sulla croce dell'economia capitalista è stato
inchiodato il povero».
Così, nel
1954, per lui fu trovato un posto da cappellano sulle navi degli emigranti
italiani diretti in Argentina. Sull’oceano, durante una traversata, fratel
Arturo incrociò l'esperienza di un fratello della congregazione di Charles de
Foucauld: decise di farla propria, andando nel deserto per quattordici mesi
come novizio.
Mai,
assolutamente mai nulla succede a caso!
Ed è come piccolo
fratello che nel 1957 rientrò in Italia, per fondare, dopo aver lavorato anche
come magazziniere in Algeria e aver aiutato i più poveri durante la guerra
algerina, una comunità tra i minatori del Sulcis, in Sardegna.
Ancora alle
autorità vaticane le sue prediche erano sgradite, così gli fu suggerito di
lasciare definitivamente l'Italia. Era il 1959. Non è più tornato, fino al
2005. Ignorato e dimenticato dal suo Paese e dalla sua città per decenni,
mentre lui combatteva, con l'unica arma dell'amore, contro le dittature
dell'America Latina.
Il primo
importante riconoscimento per fratel Arturo è arrivato da Israele che, nel
1999, gli ha concesso il titolo di Giusto tra le nazioni e ha inserito il suo
nome nel Giardino dei Giusti di Gerusalemme. Con altri sacerdoti nel 1940 fratel
Arturo riuscì a mettere in salvo oltre ottocento ebrei dalle persecuzioni
fasciste e naziste, nascondendoli nel seminario arcivescovile di Lucca.
Infine l’abbraccio
col papa Francesco nel gennaio scorso.
E la
contentezza riverberava dai suoi begli occhi lucenti, ricchi di vita, di fede e
amore.
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