sabato 25 gennaio 2014

Mai disperare e mai acquietarsi all’esistente

Da alcuni mesi c’ è fermento in paese. Si andrà a votare. L’elezioni amministrative prossime accendono gli animi, scaldano i motori degli sparuti gruppi politici presenti. Il sindaco in carica dopo due mandati lascia.   

Alleanze, programmi, liste, uomini da piazzare, pari opportunità per genere; e poi scelta del nome per la lista, giri di valzer dei soliti noti. Liti. Volti e nomi da anni e decenni conosciuti. Promesse, menzogne, gelosie, invidie, aspettative, e poi ancora pretese, ripicche, astiosità, personalismi, prenotazioni di posti in lista, accaparramenti di poltrone in giunta, conta dei “miei” e conta dei “suoi”, …

Tutto ciò non mi attrae. Anzi mi indispone.

“Dobbiamo vincere… solo vincendo possiamo fare tutto ciò che vogliamo fare…abbiamo sempre fatto così….la politica è fatta di queste cose…. Quando ci saremo noi al governo dell’amministrazione sarà tutta un’altra storia…i nostri uomini sono migliori, più onesti… i loro sono il peggio, gente che è li per tornaconto personale…bisogna creare l’unità di tutto il centro sinistra…idem per il centro destra….”.

Chi bazzica gruppi che entrano nell’agone politico si ritrova ad ascoltare queste profonde e articolate riflessioni, a volte condividendole ingenuamente per spirito d’appartenenza, per partigianeria. A volte per malafede. E non sono pochi coloro che “scendono in campo” per “spirito di servizio,.. per il bene del paese…”.  

Ho un altro passo. Presuntuosamente diverso.
Credo che pur non essendoci una politica o un’economia cristiana c’è sicuramente una maniera cristiana di attraversare la storia, di camminare con l’umantà: servire l’uomo, non asservendolo, mettersi dalla parte dell’umanità più debole, privilegiare la logica della fedeltà alla piccolezza. “Far strada ai poveri senza farsi strada” (ancora don Milani).

Non acquietarsi, non stare mai tranquilli, non avere paura di osare altro percorrendo strade impervie e sentieri poco battuti.
Aldo Moro, nel 1973 al XII° congresso della Democrazia Cristiana affermava che il richiamo all’esperienza di fede dev’essere avvertito – nell’agire politico – come “principio di non appagamento e di mutamento dell’esistente”.
Mai disperare e mai acquietarsi all’esistente. Il cristiano come qualunque altro uomo di buona volontà dovrà riconoscere che ben poco potrà dipendere da lui come ben poco potrà rimediare al male che lo circonda, di cui è vittima o spettatore.
Eppure quel poco che potrà fare lo dovrà ricercare e compiere con tutte le sue forze senza mai rinunciarvi in partenza, con la fiducia che anche da un minuscolo e insignificante seme possa venire un qualche effetto positivo per l’umanità circostante.
Non è forse vero che un pochino di lievito può far fermentare tutta la pasta?  (il riferimento è alla I lettera ai Corinti).   In verità non ci crediamo. Siamo tutti ammaliati dal potere, dalla gestione del potere. E il potere fa sentire importanti, indispensabili, grandi persone.

Nel contesto sociale attuale non è difficile scorgere la disgregazione, il disfacimento di assetti consolidati, la polverizzazione dei rapporti umani. La politica, ciò che ne è rimasto, non è nelle condizioni per intervenire risollevando le sorti del vivere. Non ne ha l’autorevolezza morale, non ha riferimenti valoriali nobili, né uomini capaci di testimoniare con credibilità e tensione etica un reale percorso verso il cambiamento.  Il modo che abbiamo di rappresentare e concepire la politica è vecchio, anacronistico. Nel peggiore dei modi avvilente, arrogante, inetto, volgare.
Occorre ricostruire il tessuto connettivo del vivere civile.
Ricreare le condizioni di una vita buona. Disegnare scelte “prepolitiche”, scelte di vita che possano  stimolare ad orizzonti più alti per ogni legittima e varia opzione concreta e infine partitica o di schieramento. Tessere uno stile di vita improntato alla sobrietà.
Abbozzare corpi intermedi, costruire fraternità e passioni comuni, per formulare una promessa e cambiare il futuro. Per avere un tempo aperto al sogno.     Corpi intermedi: dal più piccolo, la famiglia, al più complesso perché proiettato fino dentro le istituzioni, il partito.

Cosa resta della politica se tutto diventa competenza tecnica o governabilità, per di più costretta dentro rotaie anguste già realizzate da altri?  Cosa rimane se si trasforma in esercizio di potere e attività di consenso? Cosa può fare se si riduce ad affermazioni personali o di gruppi?
La politica è avventura, rischio: il contrario della neutralità  Per questo può cambiare il corso degli eventi. Ma per farlo deve avere i suoi strumenti: le istituzioni e, prima ancora, la comunità organizzata. Il partito – come il sindacato, la cooperativa, il movimento, il comitato, l’associazione – non è un totem, è uno strumento che non può sostituirsi al fine. Uno strumento serve, è indispensabile per tentare di uscire dalla frantumazione, che è condizione di servitù.
Occorre lavorare con passione alle cose buone che si possono fare oggi, sapendo che non sono perfette e che il desiderio di una comunità è andare oltre, pensare ad un futuro migliore. 
La profezia non è incompatibile con la politica. Basta crederci, scommettere e lasciarsi ispirare ancora dal principio di non appagamento.  

martedì 21 gennaio 2014

ammetto

Ammetto il perdurare del disagio giovanile. Ancora l’ostilità perseverante nei confronti di giovani. Chi come me che giovane non è più ha faticato per affermarsi, urlando e scontrandosi con la generazione dei padri.  Era una lotta per non soccombere, per emergere. Per conquistare spazi di vita e poter dire “decido io”.

Ammetto che siano cambiati i tempi, sono mutate le coordinate sociali.

Ammetto che oggi i giovani vivono in una realtà decrepita, malata sin nelle profondità, di una malattia che a volte ritengo sia così virulenta da non lasciare spazio al futuro.

Per oltre ventanni sono stato a contatto con la “generazione di sconvolti senza più né miti né eroi”, smorzati e annichiliti, divorati dalla droga e dalla follia, dall’AIDS e dall’esistenza piagata dalla ferocia della solitudine mortale.

I pendolari del buco e del metadone oggi oscillano con altre scimmie. E vagano armati di cellulari e smartphone, twittando e chattando su facebook, ridotti a isole e chiusi nei loro isolamenti.
La strage di anime e corpi è meno evidente, più subdola.  Cresciuti fin da bambini con una volgare e dilatata pubblicità di un nichilismo vomitato ad oltranza dai mass media, rimpinzati con “piste” quotidiane di discorsi vacui conditi da immagini violente e volgari sdoganate ovunque. Ammansiti con inviti espliciti ad abitare l’inumanità e il terrore, sino al rovesciamento e alla trasmutazione dei valori di bello, buono e vero.  Chiamati a risiedere in città orribili e svuotate d’umanità e trascorrere un tempo mercificato e carico di noia mortale in quei non luoghi di nauseanti centri commerciali.

Ammetto che la paralisi letale del sistema sociale ed economico dentro il quale ci troviamo è conseguenza e causa della narcosi dentro cui abbiamo costretto i giovani.

Ammetto la mancanza di testimoni e maestri, di coscienze critiche capaci di suscitare passioni, ribellioni, lotte. Capaci di risvegliare speranze, mettere in moto sogni. Far baluginare davanti agli occhi segni di vita autentica. Di rivoluzioni contro ogni ingiustizia. Di far nascere l’indignazione davanti all’urlo muto di chi soffre ogni giorno per vivere.

Ammetto il fallimento, la diserzione e la pusillanimità del mondo adulto.

Ammetto che la lotta è impari, le subdole persuasioni e la narcosi disseminate sono devastanti.

Ammetto l’impossibilità del nostro sistema a rendere vive le giovani generazioni, a rianimarle rendendole entusiaste nel compito di crescere e assumersi le responsabilità davanti se’ stesse per muovere la storia rendendola abitabile, umanamente abitabile.

Ammetto che non sarà possibile accordare per lungo tempo ancora, come i monarchi assoluti facevano, concessioni, elemosine.

Ammetto che ho imparato, anche sulla mia pelle, che è nei momenti più oscuri, quando sembra che tutto ti cade addosso, quelli in cui ci si decide a compiere scelte forti e coraggiose di cambiamento che altrimenti mai saremmo stati in grado di compiere.

Ammetto che un cambiamento non potrà essere incruento. Chi possiede, da sempre, cercherà di non concedere nulla a chi non ha.

Ammetto anche che ci si deve attrezzare, la lotta sarà lunga e dura e allora occorre avere un equipaggiamento di tutto rispetto.

Ammetto che l’essenziale dell’equipaggiamento è dato da due movimenti: la vita contemplativa, quella dell’ascolto e dell’interiorità e quella di una cultura rinnovata, di un rinnovato e coraggioso pensiero capace di denuncia e di critica, di profezia e annuncio. Di una fierezza dello spirito, Di un procedere fiero. Di un pensiero e uno sguardo sul vivere sprezzante la mediocrità, la grettezza.

Ammetto che l’insignificanza dell’azione politica è resa più marcata per l’assenza di una vita interiore ricca e per il  vuoto culturale rappresentato da una classe politica improntata e diretta  solo all’auto mantenimento e alla preservazione del potere.

Ai miei giovani, malati e curvati nell’animo chiedevo loro uno scatto d’orgoglio: “cos’hai da perdere”.
Ancora credo valga la pena far risuonare nel cuore nostro e dei nostri giovani questa domanda.

Ammetto che è solo l’impegno interiore, quel costante caparbio lavoro quotidiano capace di donarci la forza della visione, fino a condurci alla liberazione dalle  suggestioni e sortilegi bloccanti  ad un sovrastante Vuoto, spacciato divinità e reso indiscusso potere assoluto.







sabato 4 gennaio 2014

i cristiani...temerari, capaci di generare vita



A volte scordo un presupposto fondamentale. Un presupposto lampante, certo ma sgradevole. Sarà questo il motivo per cui facilmente lo trascuro, lo nascondo fino a censurarlo. Quale sarebbe?

Questo: non tutto ciò che viene da me, quello che faccio e che penso per il semplice motivo che proviene da me è una buona cosa, è il meglio che possa esprimere.

Ho avuto questo precisa folgorazione qualche giorno fa nel “dovere di sedersi”, quell’ appuntamento mensile in cui mia moglie ed io ci prendiamo il tempo per raccontarci di noi, per pregare insieme, per riprenderci  e rimotivarci, per ridisegnare le nostre mappe, le nostre mete, i nostri desideri,…

E’ vero che non lo dichiaro apertamente però, lo devo onestamente riconoscere, in pratica mi comporto come se effettivamente fosse così.

Il pensiero di diventare buono o più buono, il proponimento di diventare più retto o migliore e quindi di progredire verso un modello di perfezione, è un concetto che io presento a mio figlio e non presento immediatamente a me stesso; più o meno appagato di così  come sono non riconosco il bisogno di crescere, di migliorare.  In fondo è come se ammettessi “io sono arrivato”, “sono realizzato”, “sono un perfetto cristiano”,…Oppure, e per me è un pensiero ben peggiore perché deprime e schiaccia  tentativi e tensioni, fino a farmi ritenere impossibile qualsivoglia miglioramento, arrivo a convincermi che "tanto non sarò mai...!".

Riconosco che vi sono persone insoddisfatte di se stesse, e quindi in perenne ricerca, tentennanti nel loro cammino.  
Ma sembra a me che siano una minoranza e neppure tanto invidiata perché l’insoddisfazione, e quindi la ricerca del miglioramento, genera sofferenza, provoca tormento.

Son convinto che la stragrande maggioranza dell’umanità, persino la gran parte dei cristiani, sia soddisfatta di se’, sia appagata della posizione raggiunta, sazia di sé stessa, persino capace di “vendersi” e spacciarsi come gente da invidiare, imitare.

Crede in sostanza di essere al (il)  meglio, di avere raggiunto le vette e neppure è sfiorata dall’idea di dover ancora muoversi, cambiare, migliorare, rinnovare il desiderio di perfezionarsi.
Scorgo in questo la pesantezza (anche nel senso di “noiosità), la mediocrità, la scarsa vivacità che grava sulla Chiesa.

Una Chiesa, noi cristiani, come gente statica, pesante, seduta, quasi inaridita e incapace di slanci, chiusa a prospettive ampie. Capace solo di ripetere sino allo sfinimento “si è sempre fatto (pensato, detto, goduto, amato,…) così”.

 Eppure sembra a me che ogni qualvolta mi confronto con il Vangelo mi vengono rinviate  parole chiare, pensieri sempre nuovi, capaci di far volare desideri ed esistenze, liberare sogni, sciogliere catene.

E' bene ricordare che lo Spirito di Dio non si è posato su di noi ma su Gesù Cristo. E’ lui l’uomo giusto, non io.

Lui è il modello cui conformarmi perché possa riconoscere in lui, uomo giusto, il giusto modo di vivere.

L’idea di diventare migliori, di diventare buoni per un cristiano adulto trova riferimento nel dovere di rifarsi a Gesù Cristo. Una vita tutto sommato “spericolata”, poco incline a quel ricercato equilibrio tanto caro a scafati politici e  navigati prelati esperti di affari curiali, tenaci acrobati nel non cambiar nulla.

Il modello di Gesù rinvia a donne e uomini non annoverabili tra gente scialba e ferma, sfiduciata e senza prospettive; neppure catalogabili tra persone solo votate all’azione, impegnati a fare, pur belle e nobili, cose  culturali, sociali o politiche.

Penso che il cristiano sia una persona impegnata prioritariamente a modellare la propria vita su Gesù Cristo. 

I cristiani sono, meglio dovrebbero essere, i santi che è un termine un po’ sbiadito per dire che devono vivere come il loro Signore: gente aperta all’ascolto e alla preghiera,  temerari, capaci di generare vita scommettendo la propria esistenza e accordando la fiducia a quel qualcuno che li ha fatti innamorare.