A volte scordo un presupposto fondamentale. Un presupposto
lampante, certo ma sgradevole. Sarà questo il motivo per cui facilmente lo
trascuro, lo nascondo fino a censurarlo. Quale sarebbe?
Questo: non tutto ciò che viene da me, quello che faccio e
che penso per il semplice motivo che proviene da me è una buona cosa, è il
meglio che possa esprimere.
Ho avuto questo precisa folgorazione qualche giorno fa nel “dovere
di sedersi”, quell’ appuntamento mensile in cui mia moglie ed io ci prendiamo
il tempo per raccontarci di noi, per pregare insieme, per riprenderci e rimotivarci, per ridisegnare le nostre
mappe, le nostre mete, i nostri desideri,…
E’ vero che non lo dichiaro apertamente però, lo devo
onestamente riconoscere, in pratica mi comporto come se effettivamente fosse
così.
Il pensiero di diventare buono o più buono, il proponimento
di diventare più retto o migliore e quindi di progredire verso un modello di
perfezione, è un concetto che io presento a mio figlio e non presento
immediatamente a me stesso; più o meno appagato di così come sono non riconosco il bisogno di
crescere, di migliorare. In fondo è come
se ammettessi “io sono arrivato”, “sono realizzato”, “sono un perfetto
cristiano”,…Oppure, e per me è un pensiero ben peggiore perché deprime e
schiaccia tentativi e tensioni, fino a
farmi ritenere impossibile qualsivoglia miglioramento, arrivo a convincermi che "tanto non sarò mai...!".
Riconosco che vi sono persone insoddisfatte di se stesse, e
quindi in perenne ricerca, tentennanti nel loro cammino.
Ma sembra a me che siano una minoranza e neppure tanto
invidiata perché l’insoddisfazione, e quindi la ricerca del miglioramento,
genera sofferenza, provoca tormento.
Son convinto che la stragrande maggioranza dell’umanità,
persino la gran parte dei cristiani, sia soddisfatta di se’, sia appagata della
posizione raggiunta, sazia di sé stessa, persino capace di “vendersi” e
spacciarsi come gente da invidiare, imitare.
Crede in sostanza di essere al (il) meglio, di avere raggiunto le vette e neppure
è sfiorata dall’idea di dover ancora muoversi, cambiare, migliorare, rinnovare
il desiderio di perfezionarsi.
Scorgo in questo la pesantezza (anche nel senso di
“noiosità), la mediocrità, la scarsa vivacità che grava sulla Chiesa.
Una Chiesa, noi cristiani, come gente statica, pesante,
seduta, quasi inaridita e incapace di slanci, chiusa a prospettive ampie. Capace
solo di ripetere sino allo sfinimento “si è sempre fatto (pensato, detto,
goduto, amato,…) così”.
Eppure sembra a me
che ogni qualvolta mi confronto con il Vangelo mi vengono rinviate parole chiare, pensieri sempre nuovi, capaci
di far volare desideri ed esistenze, liberare sogni, sciogliere catene.
E' bene ricordare che lo Spirito di Dio non si è posato su di noi ma su Gesù
Cristo. E’ lui l’uomo giusto, non io.
Lui è il modello cui conformarmi perché possa riconoscere in
lui, uomo giusto, il giusto modo di vivere.
L’idea di diventare migliori, di diventare buoni per un
cristiano adulto trova riferimento nel dovere di rifarsi a Gesù Cristo. Una
vita tutto sommato “spericolata”, poco incline a quel ricercato equilibrio
tanto caro a scafati politici e navigati
prelati esperti di affari curiali, tenaci acrobati nel non cambiar nulla.
Il modello di Gesù rinvia a donne e uomini non annoverabili
tra gente scialba e ferma, sfiduciata e senza prospettive; neppure catalogabili
tra persone solo votate all’azione, impegnati a fare, pur belle e nobili, cose culturali, sociali o
politiche.
Penso che il cristiano sia una persona impegnata
prioritariamente a modellare la propria vita su Gesù Cristo.
I cristiani sono, meglio dovrebbero essere, i santi che è un
termine un po’ sbiadito per dire che devono vivere come il loro Signore: gente
aperta all’ascolto e alla preghiera, temerari, capaci di generare vita scommettendo
la propria esistenza e accordando la fiducia a quel qualcuno che li ha fatti innamorare.
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