venerdì 19 dicembre 2014

Inseguendo la cometa



Ogni cosa passa vorticosamente. Anche questo natale passerà via consumato in modo frenetico.

Le magre tredicesime assottigliate già sul nascere da tasse e mutui, in questa crisi economica che azzanna e brucia posti di lavoro e speranze, attenua ma non spegne il solito consumismo di queste feste ancora piene di perline colorate e babbinatali illuminati.

Questa lunga recessione economica non cambia quello sguardo d’indifferenza cui sembra destinato ormai il mistero della nascita di Gesù Cristo che rimane questione stinta nel tempo; così distante, così irrilevante e priva di significato nel vivere di tutti.

Certo di fronte al presepio si riaccendono forse barlumi di nostalgia, reminiscenze legate a vicende e volti del passato: genitori e parenti ormai scomparsi, la magia dell’attesa, i profumi dei giorni di festa, le tavole imbandite…

Per chi ha figli piccoli e nipoti l’incantesimo di natale si ravviva melanconico.

Nei più l’immaginario di quella mangiatoia nella grotta, di quel bambinello evocano appena fugaci e fragili sentimenti di bontà a buon mercato.

Il consumismo ha fagocitato ogni cosa, natale compreso, festa usa e getta.

Ma allora non era il consumismo ad uccidere la memoria del natale cristiano: denaro, potere e lussuria sono conseguenze e non cause.

Questa celebrazione e memoria della nascita sembra non abbia realtà e spessore nel vivere: non ci tocca né ci coinvolge.

Non sorprende come stupì pastori e re magi che si misero in cammino per cercare quel che accadde in quella notte illuminata da una grande cometa.

Un evento grande, capace di stravolgere l’umanità.

Mi convinco che Cristo non è storia di ieri.

E poi che me ne farei d’un avvenimento come di una tesi seppure ardita, d’una idea, un mito cui rifarsi per stabilire un fondamento al vivere?

La tentazione presente è l’inclinazione a ritrarsi, quasi a soffocare ogni speranza. A ridurre tutto ad un affare che si corrode celere, che lascia traccia appena e poi svanisca, si smorzi come le luminarie appese ai fantocci natalizi. Lasciando in bocca un sapore amaro.

Eppure il cuore dice che non c’è nostalgia o idea che possa umanamente vincere la tentazione d’annichilimento e cinismo.
Il cuore pulsa ancora davanti a qualcosa di reale che si vede e si tocca.
E allora l’intuizione di mantenere viva la speranza passa attraverso la scommessa di dare credito alla luce della cometa che nella notte di duemila anni fa illuminò il mondo accendendo il cuore degli uomini.
E seguire quella stella, in compagnia di uomini e donne mossi dalla curiosità e dalla speranza, può già voler dire sottrarsi al buio che ci circonda, allontanarci dal cinismo che imperversa.

Può voler dire scommettere su quel qualcuno che ha acceso la nostra fede....sperimentando, qui ed ora, un vivere in pienezza e gioia.

venerdì 5 dicembre 2014

...dalla grazia di poter essere beati



Sempre, dopo aver letto il Vangelo delle beatitudini,  avverto la distanza che mi separa dalla comprensione e s’accende la paura di rovinarlo coi miei pensieri, deturparlo con le mie parole.

Mi persuado di non averlo ancora capito e son quasi convinto che, meditandolo per tutta la vita, alla fine solo per grazia riuscirò a interiorizzarlo.

Continua  a sconcertarmi.

Locuzioni e argomenti di cui non vedo il fondo. Fino a togliermi il fiato come davanti a un precipizio.

Mi fanno inquieto e inerme, rinfocolano la nostalgia mai sopita di un mondo fatto di verità e giustizia, di piena uguaglianza.

M’arrovello in tentativi di interpretazioni, balbetto timide esegesi non per smorzare la vitalità ma per tenerla per me ancora vivida.

Le Beatitudini non pongono in essere nuovi comandamenti, rappresentano la bella notizia che il Signore  offre gioia a chi genera amore.

Al punto che se io mi  preoccupo della felicità di qualcuno il Padre si preoccupa della mia felicità, ripagandomi in abbondanza (qui mi risuona la voce di mia moglie “…ci verrà dato il centuplo”).

Beati: parola che mi assicura che il senso dell’ esistenza è nel suo intimo, nel suo nucleo ultimo, ricerca di contentezza e pienezza gioiosa, fino a concepire che la felicità è nel programma di Dio.

Beati voi, poveri!  Mi par di vedere un’esultanza, un rallegramento.
Non beata la povertà, non è l’esaltazione del pauperismo ad oltranza.

Beate le persone: i poveri senza aggettivi, tutti quelli che l'ingiustizia del mondo condanna alla sofferenza.
Coloro che schiacciati dall’iniquità non hanno protettori umani, sono calpestati e derelitti.

Povero sono io nel riconoscermi bisognoso d'altri per vivere, perché io non mi basto, mi devo affidare, chiedere perdono.
Non sono autosufficiente fin dal primo vagito.

La promessa non è nel futuro rovesciamento: oggi poveri domani ricchi, tutti Paperon de Paperoni.

E’ rivolta all’adesso, al presente, nell’hic et nunc,: beati voi, poveri, perché vostro è il Regno.

Beati, perché è con loro che il Signore stabilisce di cambiare la storia, non con i potenti.
I poveri hanno il cuore al di là delle cose: c’è la promessa, qui ora, d’un Dio che salva e libera.
I poveri sono come vasi che possono contenere frammenti  di paradiso e di futuro.

Beati voi che piangete. Il Signore non ama il dolore,  non esorta alla sofferenza, non invita al martirio.
Il Signore è lì con i poveri che piangono perché è più vicino a chi ha il cuore ferito, insanguinato.
Incoraggia a non abbattersi, asciuga le lacrime e si offre come riparo e diventa vita della tua vita, lacrime del pianto d’ogni uomo.

E poi c’è un  avvertimento: guai a voi ricchi!
E’ un avviso per dire: state sbagliando.
Avete il cuore talmente pieno (di divinità, di voi stessi, di averi) da non rendervi conto d’aver perso (voi stessi, gli affetti).  Avete sbagliato, voi ricchi, perché le cose attraverso le quali ostentate il potere e la ricchezza sono dittatrici e il più delle volte le ricchezze accumulate sono sottratte, estorte, accumulate con la menzogna e rubate ai poveri.
E la felicità allora, ne son sempre più convinto, non viene dall’avere e dal potere  ma dalla grazia di poter essere beati. 

domenica 30 novembre 2014

Di nuovo un nuovo Avvento


Arriva, ancora arriva!  Ritorna di nuovo l’avvento. Tempo d’attesa e di preparazione, con gli occhi a scrutare l’oltre in un cielo tempestato di stelle che sparpagliano flebili luci sul futuro.  
      Per molti scontato, periodo risaputo già visitato e ormai svuotato d’ogni  
    mistero.

Nel tempo presente carico di buio.
       Auspicio, speranza, desiderio di giustizia e pace: ogni cosa profuma d’aromi
     e spezie e la  memoria di mirra e incenso nell’oro diffuso ovunque a marcare
     figliolanza regale.

Tempo antico e rinnovato, datore di brame minuscole eppure così vaste, di aspirazioni profonde e intense, estese oltre i mari e spazi siderali e moltitudini da sempre di affamati e assetati di verità e bellezza.  
     Miserabili generazioni bramose di pane e acqua come di sguardi di tenerezza
    e mani amorevoli.

Col freddo che fa intirizzire il volto e gelare le mani, col fiato corto e gelido a marcare il tempo di quella nascita attesa al punto da sospendere ogni altro tempo.
Tempo precario, incerto, drammatico eppure aperto a luce gioia vita.
Arriva l’avvento, ancora una volta la fatica di credere e come scommessa per sperare e rinascere.  
In piedi, vigilanti affaticati e barcollanti in attesa a scorgere la stella dalla coda luminosa.
Seguire flebili luci e orme sbiadite e voci usurate e fiacche di chi s’incammina all’incontro.
Con chi ha visto credendo prima ancora di vedere ma solo lasciandosi oltrepassare da una parola senza tempo perennemente nuova.
E poi ancora chiarori e occhi sospesi vigili e curiosi, menti inquiete.
E sogni; e ancora aspirazioni e attese e preghiere urlanti e flebili bisbigli e sospiri.
Col cuore travagliato e stremato.
Lacrime.
Di nuovo un nuovo avvento, così remoto così presente.
E poi domani e poi ancora sino a quando il primo vagito dell’uomo nuovo rischiara di senso ogni cosa e tutto riscatta e tutto rigenera.

 

lunedì 10 novembre 2014

Un senso al vivere, tra abbandono e accoglienza



Ci sono momenti in cui si è richiamati a “ridirsi” il perché del vivere.

Domande e situazioni che, urgenti e prepotenti, t’interpellano fino a che non ridai risposte a quella domanda, antica e mai sopita, del perché vivere.

Quale il senso del vivere? Vivere ha/è un senso?

Compito impegnativo, avventura affascinante, scelta radicale.

Non son più giovane, nel viaggio del mio vivere ho abbandonato pesi rappresentati da certezze ritenute granitiche e sentenze inossidabili.

Mi riscopro ora sprovvisto di risposte meccanicamente certe e pappagallesche soluzioni infallibili.

Ho lo zaino più leggero con molte domande aperte. E allora mi riscopro ancora audace Siddharta, intrepido cercatore mai sazio dal cuore amato e amante.

A volte, certo, sono assalito da dubbi che scavano e danno sconforto; eppure ritengo che forse la missione da svolgere, almeno per me, in questa vita sia il vivere ricercandone sempre l’intima essenza, il significato profondo.

Fino a pensare che il valore della vita sia quel talento che aggrega tutto il nostro essere ed esistere, quella realtà che armonizza e dà peso ad ogni aspetto ed elemento, che interpreta e traduce l’oscurità in sfida positiva e incoraggiante.

E’ come la stella che ci guida nella traversata dell’esistenza, che ci consente di avere un orientamento, un “nord”, per accompagnare le nostre azioni e ci indirizza verso il futuro carico di attese, anche quando fallimenti e “sfighe” ci fanno deragliare.

La fede balbettante che accompagna i miei giorni mi fa dire che il centro unificatore che rende speranzoso il passo in quest’avventura sia l’incontro con Cristo, autentica novità che apre a incontri e sfide, bellezza che affascina e innamora.

Ciò mi concede di vivere questa vita dischiuso alla pienezza, dilatato ancora allo stupore, capace ancora di sorprendermi.

E così mi appare quest’esistenza, cammino da percorrere con partecipazione nell’attestazione di un qui ed ora che sempre si rinnova, che pretende scommesse e non esenta da rischi.

Fino a reclamare generosità e fiducia, abbandono e accoglienza.

lunedì 20 ottobre 2014

Il "per me" della fede



Nella mia Equipe a raccontarci di  fede, di dolore e di morte, rileggo come in trasparenza il “per me” della fede.

E’ dono questo è certo; inaspettato e non trasmesso per discendenza. 

Un dono che sulle prime non l’ho gradito, era ingombrante, pesante, fastidioso.
Di cui per altro mi lamentavo del fatto che mi era inutile, cosa farmene?

Un dono che, l’ho scoperto solo da non tanto tempo,  non diventa un’altra cosa una volta che è arrivato.
Resta un dono: non si trasforma in un fondo assicurativo, una fornitura sin quando si vive, un’usanza o una generica qualità biografica.   

Mantiene il mistero  della sua incomprensibilità, la precarietà del suo mantenimento, la consistenza della sua presenza.
Genera trepidazione e eccitazione, continuamente, quasi nella stessa misura

S’incrocia e meticcia con la nostra storia, i nostri geni, la nostra cultura,…ma li porta oltre trasformandoci.

Nella vita crea anche scompiglio e grazie a questo dono non sai bene dove si vada a finire perché è perenne sorpresa.


Non è una visione di un “già visto”, non è assicurata, come noi la intendiamo solitamente, una vita simile ad una commedia  dal buon lieto “the end”.

E’ materialità, concretezza dell’irrompere della vita di Dio nella nostra storia e nelle nostre fibre, e pure insieme  è differenza ostinata ad ogni forma di esistenza che ne nasce.

Suscita un imprevedibile senso di gratitudine, all'opposto di qualsiasi  offerta discutibile e ambivalente  che
assoggetta ad una restituzione obbligata.

Il cristianesimo, infatti, è proposta d’amore nella quale Dio vuol essere amato e non subito. Non è possesso d’identità da ostentare; non è medaglietta che reclamizza il miglior prodotto; non è una dottrina morale da seguire per essere buoni.

La fede quando agisce muove e rinnova le cose; fa attraversare il deserto placando  la sete e la fame, rendendo il dolore sopportabile, lenendo la sofferenza, rovesciando le prospettive al punto di porre lo sguardo al di là del limite su cui si ferma l’orizzonte ordinario.

C’inoltra nel “già e non ancora”, ci fa stare nel “qui ed ora” trasfigurato.

E allora capisci che la bellezza esiste ovunque, percepisci che ogni cosa svela la presenza benevola del Padre.

Tutta la vita diventa novità sorprendente.
La fede crea varchi, per la forza e l'azione di Dio.
Non cambia semplicemente le menti, non esprime solo nuove idee dalle quali nasce poi una prassi che trasforma il mondo (sebbene io creda che pur rimane azione rivoluzionaria!).


E' come avere la percezione di mettersi nel luogo in cui lo Spirito Santo sta gemendo e pulsando, come dice Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 8).

La fede sta sul campo, sempre.
 

A quel punto capisci ( o ti pare meglio di capire) anche il mistero dell'incarnazione:  sai che Dio muove il mondo in Gesù.
E non ti tormenterai se riterrai di non essere all’altezza, di non avere sufficientemente fede per il fatto di dirti cristiano.

Se sei un credente il mondo inseme a te si smuove.

La vita d’ogni giorno come le cose, attraverso uno sguardo diverso cambiano,  come cambiano i rapporti con le persone, tra  marito e  moglie...    Una leggerezza, un senso di libertà maggiore pervade le relazioni.

Solo il permanere nella condizione di partenza, nello stato di sofferenza svela l’alibi della fede, la mistificazione della fede, il volto dietro il quale si nasconde la rigidità e la paura, l'integralismo.
La fede avvicina, genera contatti, crea legami.  Oppure allontana perchè provoca cambiamenti, attiva novità e tutto ciò sopaventa, incute timore.

Quando Dio ti tocca c'è un contatto, una prossimità, una stretta vicinanza.  La fede è questo: percepire la contiguità fra Dio e l’ uomo, fra noi e il Padre.


E poi ho scoperto che la fede non è appropriazione di granitiche certezze e forza di soppressione del dubbio. Non è riparo e sicurezza per anime pie e già accomodate. 

Viceversa, è il trionfo  sul dubbio, e l’incertezza e l’oscurità si superano passandoci in mezzo!


venerdì 19 settembre 2014

Peter Pan




C’era una volta, tanto tempo fa, un bambino che era nato e cresciuto in un piccolo paesino dal nome impronunciabile che sembra quello di una formula magica Ruszkabanya-Krassòszoreny. Un piccolo borgo circondato da boschi e dolci montagne dove il piccolo Peter viveva con la sua mamma.  

Il villaggio a quel tempo era nell’impero austro-ungarico oggi ha un altro nome, Rusca Montana, e si trova in Romania.  

Peter, nato il 21 agosto 1897, diventa un giovanotto e viene arruolato al 30° Reggimento fanteria Honved, 7° compagnia, spedito al fronte. 

C’era la guerra, quella Grande Guerra, quella grande inutile strage che ha irrorato di sangue l’Europa sui monti e nelle trincee.
Ho girato per i monti della memoria finendo sul Monte Grappa, nell’Ossario di Guerra dove vi sono i resti di dodicimilaseicentoquindici soldati.

Nella parte esposta a nord, c’è il cimitero Austro-Ungarico ed è qui che ora si trovano i resti del soldato Peter, Peter Pan.  La sua casa è una lapide, la numero 107.  

Qui, nella casa del soldato Peter Pan, da quasi ottant’anni mani ignote posano ogni giorno fiorellini di campo, piccoli sassi e conchiglie. E ancora questa magia continua; non si sa chi sia a portare quei piccoli doni che ogni mattina zelanti custodi dell'ossario portano via: infatti, non vi sono fiori per rispettare l'eguaglianza di tutti i caduti.

Non c’era Trilly a salvare Peter Pan che muore a ventun anni straziato da una granata  il 19 settembre 1918 a Col Caprile. Carne da macello. Morto senza eroismo. Quel tardo pomeriggio, quando il silenzio della morte sovrasta tra i monti, i barellieri della Croce rossa raccolsero il suo corpo e quello di cinque commilitoni.

Pare che nelle sue tasche abbiano trovato una conchiglia, un pezzetto di marmo bianco e un fiore seccato.

Mi sono commosso e dalle mani ho fatto scivolare alcuni fiorellini sulla lapide 107.
                                                                                                             

“Le stelle, per quanto meravigliose, non possono in alcun modo immischiarsi nelle faccende umane, ma devono limitarsi a guardare in eterno. È una punizione che si è abbattuta su di loro così tanto tempo fa che nessuna stella ne ricorda il motivo. E così quelle più anziane sono diventate cieche e taciturne (le stelle comunicano tra loro ammiccando con gli occhi), ma quelle più giovani si meravigliano ancora di tutto” (Le avventure di Peter Pan, James Matthew Barrie).

                     


lunedì 15 settembre 2014

Capaci d’abbracciare l’intero universo



Il vento oggi scuote gli alberi, assomiglia alla voce dell’oceano conosciuto a  Cabo da Roca, così selvaggio e passionale.
Amoreggia coi rami e piega loro le chiome come fragore d’onde. Svolazzano foglie staccate e alcuni frutti e rami secchi cadono ovunque tra l’erba arruffata. Un temporale copre ogni altro rumore coi tuoni e violenti scrosci di pioggia.  Ogni cespuglio e albero, ogni spiga di riso s’inchina all’impetuosità delle raffiche d’acqua e d’aria mentre nel cielo nere nuvole corrono nervose ad invadere ogni spazio.

Eppure noto una strenua resistenza ovunque. Radici salde affondano nel terreno ad attingere a memorie d’altri attacchi, battaglie violente d’altre tempeste rievocando sentimenti di speranza, audacia, fiducia.
E così sembran dare accoglienza, quasi ospitando con semplicità senza difesa, senza minaccia.
Con abbandono si lasciano avvinghiare sino a diventare un tuttuno.

Un pensiero si fa spazio. So di non essere forte, potente, vigoroso  e possente. Spesso non riesco a trattenere le lacrime davanti ad uno spettacolo della natura, leggendo le pagine di un libro coinvolgente, gustando un film che narra prodigi d’amore ed eroismo di vita, lasciandomi prendere da una musica compagna di strada del mio vivere. E allora il mio cuore si gonfia e il nodo alla gola avanza.
Mi commuovono le persone, le loro storie.

A volte mi difendo ed è anche questa difesa a dirmi che non sono forte, né potente, né vigoroso e possente. Difendere è chiudere, custodire e proteggere; difendersi è come corazzarsi contro ciò che non si conosce, di cui si ha paura, forse anche un male. 

Si chiudono le persiane e si sbarrano le finestre, impedendo al vento d’entrare.  Attendere che l’acquazzone passi, che l’aria minacciosa si sperda e ritorni da dov’è venuta. 

La difesa è un arretramento, un accovacciarsi per paura. Certo so bene che a volte non s’hanno altre forze se non quella di sottrarsi e quasi scomparire. Ho conosciuto la sconfitta, l’arretramento.
Si vorrebbe rimpicciolirsi rendendosi quasi invisibili agli occhi del mondo. Scomparire e uscire di scena: ammettere la paura e l’incapacità di vivere come Roberto, come Silvia, Federica,...

La resistenza è altra cosa, un’uscita, un’attesa sull’uscio di casa, uno scrutare alla finestra. Un osservare attento e curioso, un esplorare per pianificare e attrezzarsi.
E poi via ad attendere ed incontrare l’incognita, ad affrontare il rischio, quel nemico percepito come tale, forse anche un male. Essere presenti e vigili

Non è il resistere impresa da pavidi; non è sottrazione ma quasi sfida al destino avverso.
Non quella competizione che mostra bicipiti e boriosa sicurezza ostentata per mascherare fragilità e debolezze.
No, è quella capacità d’accoglienza anche del male, del dolore, della sofferenza; piegati, sanguinanti ma caparbi per quel seme di memoria che frutta speranza, genera audacia.

Sono arrivato a ritenere che la vita non sia una lotta, non sia un perenne conflitto; credo che la vita ci chieda di vivere e di amare, d'esser pronto all' accoglienza.  Sapremo così accettare le intemperie, il vento impetuoso come la pioggia scrosciante, l’arsura come il gelo. E forti e potenti e vigorosi e possenti potremo dire di esserlo quando saremo consapevoli che ogni cosa accade non per una minaccia alla nostra felicità, ma per donarci una contentezza maggiore, con una gioia e una serenità per essere capaci d’abbracciare l’intero universo. 

lunedì 7 luglio 2014

Fiducia e abbandono



L’ultimo fine settimana l’ho trascorso nel mio buen retiro.  Mi concedo queste gioie. Giocando con la terra, oziando sotto gli alberi, facendomi accarezzare dal sole, sudare e rimanere come un primitivo seminudo a camminare sul prato e odorare l’erba appena tagliata.



Come un lupo solitario mi lascio cullare dal silenzio, dal vento che sussurra tra le fronde degli alberi, dal cinguettio degli uccelli di questa garzaia che ne raccoglie innumerevoli specie.



Allungo lo sguardo fino alla cima del pino e intravedo, via via più distinto, un uccello. Il ramo appena piegato sotto le sue zampe, la testa dritta nell’aria come fosse una sentinella vigile e attenta. Pare scrutare lontano, immobile e assorto nel suo vivere. Non lo distraggono la mia presenza e il mio fischio. Ogni momento pare creato apposta per il suo sguardo che sembra posarsi oltre, che lontano scruta e cerca.



La punta del verde pino dondola appena alla leggera brezza sotto un sole splendente e quell’uccello si lascia cullare e pare provare piacere, trovando questo ondeggiamento conciliante alla sua sosta, o forse semplicemente accogliendolo come un dono.



E mi fa meditare, questo piccolo uccello dal portamento fiero e nobile, che forse ogni tanto nel nostro quotidiano dovremmo anche noi essere capaci di soste e dall’alto contemplare, lasciare che il vento ci accarezzi le piume e non lasciarci distrarre, ma cercare lontano, oltre, più in là.



Gettare lo sguardo più libero e meno preoccupato alla nostra vita.



Lasciarci penetrare dall’aria fresca, respirare e gustare cielo e bellezza, godere della gratuità del momento presente e sentirsi parte di un tutt’uno.



Scrutare oltre le nostre preoccupazioni, i nostri impegni, le nostre fatiche insieme ai nostri dolori.



E posare lo sguardo dove troviamo, come intima pace, vita vera quella che non ci chiede d’essere efficienti, più bravi, più presenti, più preparati, più capaci, più rispondenti alle attese del direttore generale, della produzione, della moglie o del marito, del figlio,….ma quella che ci chiede semplicemente di lasciarla scorrere nelle nostre vene, nei nostri occhi, nel nostro cuore.



Di sentirla e accoglierla come un brivido che ci prende all’improvviso. 

Come un refolo di vento  che passa sulla pelle sudata.



E quando planeremo verso il basso terremo, stanchi e provati dai mille voli,  lo sguardo pulito e le mani sicure e il cuore calmo perché avremo sperimentato (e, ne sono certo, questo pensiero lo culleremo nel nostro intimo), che la vita non ci abbandona e non ci lascia cadere. 

Solo ci chiede  fiducia e abbandono.




giovedì 5 giugno 2014

il sole infranto

Ricordo d’aver letto, anni fa, una storia che per la sua semplicità e profondità mi aveva offerto innumerevoli spunti di riflessione.



Un giorno il sole, per non si sa quale motivo, si frantumò in una miriade di pezzi che caddero tutti sulla terra e si sparsero in una grande valle incuneata da alte montagne e coperta da una fitta vegetazione.

Presto il buio coprì la terra, mentre il freddo l’attraversava impietoso e ovunque la vegetazione iniziò a soffrire.

Gli uomini, impauriti e sfiduciati, presero a fare le ipotesi più disparate e profeti di sventura calarono da ogni luogo seminando terrore e additando le cause chi ad un particolare popolo, chi ad alcuni stranieri, chi a malefici di donne terribili, …

Intanto gli uomini, di giorno e di notte senza sosta, presero a tagliare alti alberi e ad accendere giganteschi falò per avere luce e calore.

Un uomo saggio che viveva tra i boschi nella valle dove erano caduti i frammenti di sole e che ancora sprigionavano tenue luci, non si perse d’animo e iniziò a raccoglierli.

Presto si rese conto di non essere in grado, da solo, di trovare e riunire i frammenti così si decise di andare nei villaggi e nelle città per comunicare che lui sapeva dove i frammenti del sole erano caduti.  Voleva convincere le genti che incontrava che trovando quei frammenti e unendoli forse il sole sarebbe ritornato e avrebbe riportato luce e calore. Voleva portare speranza in un crescendo di disperazione, di freddo e buio. “che cosa abbiamo da perdere?” chiedeva.

Tra l'ostilità e la derisione furono molto pochi quelli che accolsero la sua proposta.

Ci vollero due anni prima che quel gruppo di uomini e donne guidati da quel saggio riuscissero a ricomporre i frammenti del sole.

Poi un giorno il sole tornò alto nel cielo e sin da subito sparse luce e tepore sciogliendo il gelo e illuminando ovunque la terra.



Siamo portati a rincorrere bagliori fugaci, veloci lampi che appaiono nel nostro tempo.



Il sole, ferito e oscurato, a volte rimane assente dalla nostra giornata e non scalda il cuore, non illumina i nostri passi.



C’affidiamo, impauriti e sfiduciati, ad accendere falò per rendere meno buio e freddo il nostro vivere.  Ci consoliamo ai tenui bagliori di luci artificiali aggrappandoci gli uni agli altri per respingere la paura, mentre profeti e ciarlatani seducono e urlano.



Son pochi coloro che cercano brandelli di senso per non soccombere.



Pochi sono gli uomini che ostinatamente cercano di recuperare, nel buio d’una lunga notte, frammenti di sole tenendo viva la speranza di ricomporlo e così ridare orientamento al vivere e regalare calore ai giorni.












sabato 3 maggio 2014

"Dio dove si trova ?"



Per andare in Galilea, si doveva attraversare la Samaria.
Così arrivò alla città di Sicar. Lì vicino c'era il campo che anticamente Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe, e c'era anche il pozzo di Giacobbe.

Sotto il sole cocente allo zenit s’incammina una donna di Samaria.

Gesù era stanco di camminare e si fermò seduto al pozzo sapendo che non sarebbe rimasto solo a lungo. Intanto i suoi discepoli  erano andati al villaggio a procurare il cibo…

(Ciascuno di noi sa, ne è convinto intimamente, che ogni cosa importante non avviene a caso; gli incontri che cambiano la vita accadono tutti come se fossero concordati, o come se quel qualcuno che ci attende sapesse in anticipo la nostra strada, l’orario dell’arrivo, il luogo dove aspettarci…)

Pare un appuntamento voluto, ricercato.     E infatti arriva la Samaritana.   Una donna “particolare”: di lei tutti sapevano che aveva avuto cinque uomini e neppure quello che a casa la stava aspettando era suo marito.

Forse era  per un senso di pudore, di vergogna che questa donna scivolava lesta sotto il sole alto di mezzogiorno al pozzo,  come ogni giorno a prender  l’acqua per sé e per chi con lei vive. Quando le altre donne già erano a tavola o intente a preparare il pranzo e nessuno si trovava in giro.

Sa di non essere ben considerata, figuriamoci se un uomo di giudea perbene le avrebbe rivolto la parola. E neanche in caso di bisogno. 

Eppure a lei si indirizza, le chiede dell’acqua.

Non succede mai più, né prima, né dopo che il Cristo si fermi così tanto in compagnia di qualcuno, almeno dalla descrizione che ci viene fatta, e che dialoghi così apertamente.

La sete è un grande bisogno, soprattutto quando il caldo sfianca il corpo. Lei lo capisce ed è pronta a dare ció che gli viene chiesto, ma Gesù la confonde parlandole di un'acqua viva.  La Samaritana si accende di speranza. Chi è quell’uomo che riesce a turbarle l’animo?  Che davvero possa essere lui  in grado di salvarla da quella schiavitù?  Come vorrebbe che fosse così… In cambio sarebbe disposta a dire la verità  su di sé, pur di capire se sta parlando con un sapiente o con uno dei tanti ciarlatani.

Dentro di lei si fa strada la certezza: è un profeta. Allora diventa più audace e chiede: «Dimmi chi ha ragione tra i Samaritani e i Giudei, dove è giusto adorare il Signore».
Quasi stonata suona questa domanda in bocca a una donna che un attimo prima provava solo preoccupazione per le proprie faccende.  

«Dio dove si trova?» chiede. «Dove lo posso pregare senza sbagliarmi, in modo che le mie suppliche giungano a Lui?».

 «Credimi, o donna, risponde Gesù, non c'è un posto o un altro. Dio va adorato in spirito e veritá». Sembra una strana risposta e invece la Samaritana comincia a capire: «Verrá un Messia, dicono, e lui spiegherá tutto per bene».

 «Sono io il Messia» dice Gesù.

La donna lascia il suo secchio per terra e corre in cittá. Adesso nella sua mente le idee diventano più chiare e prendono forma. E' Lui.  

Questo della Samaritana è uno dei tanti episodi evangelici così particolari che i discepoli non se lo sarebbero potuto inventare.

Gesù parla con chi vuole, che sia conveniente o meno, dice quello che vuole per quanto la gente rimanga perplessa nell'ascoltarlo. Nessuno può allontanarsi da lui senza che gli cambi la vita.

Nessuno.

Quando siamo disposti ad ascoltare. Quando accettiamo di parlare, a carte scoperte, con Dio. Quando abbiamo fatto terra bruciata attorno a noi, quando più neppure un cane ci si avvicina.

Con il Figlio fatto uomo, che ci arriva davanti stanco e assetato e chiede acqua.  L'aveva detto: chi dà un sorso d'acqua a uno come me, vive all'ombra di una vera amicizia, chiunque sia. Si prende l'intero pozzo, la sorgente, la vita.

Ed è solo l'inizio.


giovedì 24 aprile 2014

«Era giunta l’ora di resistere..." il mio 25 Aprile




Sembrano  secoli  ma ricordo ancora che il famoso, ormai ex, Cavaliere per anni ha rifiutato di prender parte alle iniziative promosse per il 25 Aprile; non solo da capo di un partito (o di una coalizione) dell’opposizione o di maggioranza (quindi come rappresentante di una sola parte di italiani), ma anche da Presidente del Consiglio e quindi, come capo del governo, rappresentante di tutti gli italiani.
Ha in questo modo sdoganato la negazione dell’importanza della ricorrenza; ne ha sanzionato la eliminazione simbolica dal calendario della coscienza di un popolo.
Solo qualche giornale e circoli e intellettuali di sinistra, o così catalogati frettolosamente, hanno gridato allo scandalo. Per il resto il silenzio è calato. Sembra che in italia ogni cosa scivoli presto nel dimenticatoio.  In fondo Berlusconi ha avuto buon gioco poiché è come se avesse affermato: posso farlo perché è giusto e poi tanti italiani approvano e condividono quel che faccio.

Inutile negare che il 25 aprile non sia più tanto “sentita” come festa, sia lentamente scomparsa dalle nostre coscienze.

Eppure il 25 aprile è festa nazionale, ossia festa della nazione, cioè d’una comunità di donne e uomini legati da un insieme di fattori quali la lingua, la cultura,le tradizioni, avvenimenti storici.   Ci saranno, uno o più, motivi per cui il 25 Aprile non scaldi il cuore e accenda di passione il popolo italiano come ad esempio il 14 luglio per i francesi!

La memoria ci aiuta anche se spesso viene mistificata o nascosta .
Cerco di recuperarla e ripercorrere alcuni di questi motivi che insidiano e sterilizzano la bellezza e la novità perenne della festa del 25 Aprile.

Nella primavera del 1945 su gran parte dell’Italia aleggiava un clima nuovo e rimase estranea alle vicende che invece infiammavano la Pianura padana.
Il 25 aprile è la festa che celebra la liberazione dall’occupazione nazifascista: un dato che non deve essere sottaciuto è  che quella liberazione coincise con la peggior sconfitta militare e con le più grandi devastazioni che il nostro Paese avesse mai subito.
La Resistenza affiancò con il suo sacrificio le truppe anglo americane senza le quali i nazifascisti non sarebbero mai stati cacciati.
Occorre ricordare che nella Resistenza italiana erano rappresentate, certo in misura diverse, tutte le tendenze politiche allora presenti. Cattolici, comunisti, anarchici, socialisti, monarchici, liberali: ciascuno contribuì mettendoci tutto ciò che aveva, anche la vita.
Nei decenni successivi questa realtà, ossia la pluralità delle posizioni politiche che parteciparono alla Resistenza, faticò ad emergere. Furono i comunisti, culturalmente egemoni, a fare della Resistenza uno dei propri punti forti. L’effetto fu che la Resistenza diventò indigesta a molti (anche tra coloro che ne furono i diretti artefici e promotori). 
Ancora due considerazioni, due doverosi atti di memoria: fu anche una guerra civile e chi combatteva dall’altra parte non poteva riconoscersi nella vittoria degli avversari. Infine forse, a mio parere, la più importante considerazione: il peso avuto della cosiddetta “zona grigia” ossia la gran parte di italiani che non combatterono in nessuna parte; superficiale l’adesione al fascismo superficiale l’adesione ai miti della Repubblica, superficiale oggi.

Ma tutto ciò apre e porta ad ulteriori considerazioni sino ai giorni nostri dove la “disgregazione” di popolo porta al moltiplicarsi di capipopolo vocianti e ringhiosi.  C’è chi nega che gli italiani formino una nazione: le differenze di cultura tra le varie popolazioni d’Italia sono profondamente radicate nella storia al punto che ancora oggi sono del tutto evidenti le differenze tra regioni, tra un nord e un sud.

Piero Calamandrei scrisse poco dopo la fine della guerra, a proposito della Resistenza: «Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini». Questo solo conta e questo solo abbiamo il dovere di tramandare, affinché il significato del 25 aprile sopravviva alla morte dell’ultimo partigiano e al fluire del tempo che sbiadisce e divora ogni cosa. Per vivere da uomini bisogna essere liberi. Per conquistare la libertà e donarla a chi non l’ha bisogna combattere e sacrificarsi. Sino a perdere la vita. In tempo di pace non meno che in tempo di guerra, quando anche la minaccia alla democrazia è così subdola da assumere forme attraenti e pericolose. E resistendo all’omologazione sociale e del pensiero unico che non arriva a privarci della libertà fisica ma sempre di più ingabbia e anestetizza la nostra coscienza.


P.S. l’ultimo atto della giunta del paese dove abito è stato quello di proporre l’ inaugurazione e  intitolare il monumento e il bosco delle foibe nella giornata del 25 aprile.
La mancanza di intelligenza storica, di onestà intellettuale,di sensibilità e di correttezza è del tutto evidente. La fame di consenso porta anche allo scadimento.
Uno dei luminari di questa giunta ( si presume espressione sua ciò che è riportato sulla stampa locale) afferma: “ …il monumento non era ancora pronto e quindi abbiamo deciso d’inaugurarlo il 25 aprile, partendo dal presupposto che i morti sono tutti uguali”.
Non è vero che i morti sono tutti uguali, così come non sono uguali i valori che essi hanno incarnato. Ai giovani che incontro, a mio figlio, passo ciò che ritengo fondamentale in una civiltà ossia il significato per i vivi dell’esempio dei morti. I vivi devono distinguere i morti in nome dei valori rappresentati da essi e scegliere quelli su cui fondare la propria vita, una civiltà, uno Stato. Confondere vuol dire essere in mala fede oppure è ignoranza e allora conviene tacere. Ma se è mala fede perchè mira a disorientare, ingarbugliare, intorbidire allora occorre ancora ribadire che la Resistenza deve diventare un atto quotidiano dell’affermazione della verità, della giustizia e della continua tensione a non perdere la memoria.




mercoledì 9 aprile 2014

Dove abita Dio?





 Il più delle volte la mia realtà, l’esistenza quotidiana, mi sembra banale, quasi insignificante nella vita di tutti i giorni, pur pieni di impegni e d’incontri. 

Eppure è questo il mondo dentro il quale vivo, che mi è affidato. 
Del quale devo averne cura e custodirlo. 

E’ questo il mio piccolo mondo, rappresentato da ciò che vivo, mio figlio, mia moglie, gli amici, il lavoro, la politica, le mie passioni, la fede,…

Il mondo in cui cerco di accendere scintille d’amore, in cui cerco bagliori di vita autentica. 

E’ inutile e fuorviante cercare altrove, costruirsi alibi,…

Questa, la nostra esistenza, ovunque noi siamo e comunque viviamo, è la porta attraverso la quale dobbiamo far passare riflessi d’infinito, riverberi d’amore. 

Anche se a volte sembra impossibile, anche se tutto sembra inutile.

Rendere sacri i piccoli luoghi che abitiamo, gli istanti di vita che attraversiamo, non vuol dire vivere in una cappella, costruire cattedrali o ripararsi in un convento. 

Con semplicità renderli sacri vuol dire scaldare la nostra vita e riuscire trasmettere calore. 
Permettere a Dio di abitarci.




“Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mandel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui. “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”.  (Martin Buber, Il cammino dell’uomo)






Dietrich Bonhoeffer, pastore luterano e teologo, arrestato perché prese parte ad una congiura per assassinare Hitler, venne impiccato nel campo di concentramento di Flossenburg all’alba del 9 aprile 1945, pochi giorni prima della fine della guerra.

 Dio non si vergogna della bassezza dell'uomo, vi entra dentro (...) Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l'insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono "perduto", lì egli dice "salvato"; dove gli uomini dicono "no", lì egli dice "sì".
Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente e incomparabile. Dove gli uomini dicono "spregevole", lì Dio esclama "beato".
Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima.
Lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia.”  
(Dietrich Bonhoeffer, Riconoscere Dio al centro della vita)

 



venerdì 28 febbraio 2014

Tendi invece alla giustizia,...

Sono sobbalzato dopo aver letto una notizia sul Corriere della Sera del 27 febbraio.  Una di quelle notizie appena accennate, senza grande enfasi. Quasi a riempire un piccolo vuoto su una pagina. Capace però di fotografare, meglio e più d’ogni altra istantanea, la condizione di salute del nostro quotidiano.
In un istituto superiore di Milano, una giovane diversamente abile sulla sedia a rotelle, è al centro di una polemica incresciosa. Alcuni suoi compagni ritengono che la sua presenza rappresenti il motivo per cui diverse gite di classe siano state cancellate. Anche altri suoi compagni (mai come in casi simili vorrei usare questo sacro vocabolo: da cum panis, il dividere il poco e il molto che si ha; il condividere la sorte, la sfiga e la fortuna) non vanno sul tenero attribuendole la responsabilità d’impedire che la classe vada a pattinare o ad equitazione, attività previste dal programma.
Sulla mailing list dei genitori di quella classe intanto s’apre una disputa parallela, accesa come quella dei figli.
Molte le madri a stracciarsi le vesti perché quella ragazza, orrenda portatrice d’una diversità manifesta, impedisce il regolare svolgimento didattico ai loro pargoli. Persino una rappresentante del consiglio d’istituto ha suggerito alla mamma della ragazza “colpevole” di mandare la propria figlia in una scuola speciale.
Sotto un cielo plumbeo che avvolge questa vicenda scorgo il risultato di decenni di trascuratezza educativa, una diffusa propagazione di confusione etica, un infiacchimento della dimensione morale del vivere sociale.
Nell’attuale grigiore vedo la profonda crisi del mondo adulto, neppure più capace di porsi la fatidica inquietante domanda che apre alla speranza: “cosa trasmetto ai miei figli?”.
Neppure più l’interrogativo capace di generare un’attenzione educativa: “chi sono io adulto davanti ai giovani?”; “quali valori posso/devo/voglio loro trasmettere?”.
Il più delle volte passiamo segnali d’una vita misera, gretta. Fatta d’irresponsabilità e cinismo, di meschinerie e ambiguità.
Anagraficamente adulti ma incapaci di trasmettere valori, ideali, richiami a nobili mete; così fragili, vuoti, superficiali, arroganti. Così pronti a emulare le gesta di personaggi squallidi e pusillanimi, così lesti a consigliare scorciatoie ed espedienti per arrivare ad apprezzabili quotazioni sociali. Escort, nani e ballerine han sostituito eroi, santi e profeti.
Perché i giovani dovrebbero essere diversi se gli adulti son la testimonianza di individui confusi, alienati, stupidi?
Sfugge ai più che la parola adolescente null’altro significa che un tempo per diventare adulti. Sfugge perché nessuno lo ricorda più che noi adulti siamo cresciuti guardando gli altri davanti a noi, appunto gli adulti (che non è altro che il participio passato di adolescere ossia crescere). Ci servirebbe la dignità e la fierezza di un san Paolo quando nella prima lettera ai Corinzi scrive: “Quand’ero bambino parlavo da bambino, pensavo da bambino ragionavo da bambino. Divenuto uomo ho eliminato ciò che è da bambino” (13,10-22). Ci vorrebbe il suo coraggio e la sua franchezza quando, con toni appassionanti, parla al suo discepolo Timoteo: “Tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla pazienza, alla mitezza" (1 Tm 6,11b). Son queste le caratteristiche belle dell'essere adulto: la giustizia, la pietà, la fede, la pazienza, la mitezza.