mercoledì 26 dicembre 2012

"Ciao sono Marco..."

"...anche le farfalle volano come gli uccellini solo che volano più in basso.... e anche i palloncini volano in alto ma loro non hanno le ali....io non ho mai volato. La mia mamma dice che gli angeli volano dappertutto anche dove non volano gli uccellini, le farfalle e i palloncini... e anch'io quando diventerò un angelo potrò volare e allora... allora farò scendere tanti baci trasportati dalle gocce di pioggia".

Pioveva a Lecco il quattordici dicembre scorso.            
Il cielo nel pomeriggio si era imbronciato sino a oscurare la Grigna e il Resegone.

Aspettavo l'ultimo appuntamento della giornata. Sulla scheda solo il motivo dell' incontro: "invalidità civile/indennità di frequenza".

Volto le spalle alla porta del mio ufficio guardando fuori dalla finestra l'acqua che scroscia sull'asfalto e le auto già incolonnate lungo le strade. Sobbalzo per una voce sottile accanto a me.

"Ciao sono Marco...".

I genitori rimangono sulla porta in attesa d'entrare.  Mi avvicino salutandoli cordialmente mentre Marco mi aveva preso la mano. Ho sentito le sue dita fredde e bagnate che stringevano le mie.

Marco è un bimbo di sette anni.  Conosce i nomi delle città della Lombardia meglio di qualunque altro bimbo della sua età perchè li associa ai medici e alle infermiere degli ospedali presso cui ha vissuto gran parte della sua breve vita.

 La sua anamnesi parla di sindrome di down associata alla sindrome di West e criptorchidismo destro con ritardo dello sviluppo neuromotorio specie nell'area linguistica con infezioni importanti e ricorrenti delle alte vie aeree.

Milano, Pavia, Brescia, Mantova, Sondrio, Bergamo... non li dice in ordine alfabetico ma in ordine di ricovero.  Prendo posto al mio tavolo e davanti a me siedono il papà e la mamma mentre Marco mi rimane accanto senza mai mollare la mia mano.

Apro un cassetto della mia scrivania (lo chiamo il cesto del tesoro: i bimbi ci frugano volentieri rovistando tra scatoline vuote di formaggini, matite colorate, palloncini, pigne sassolini bianchi e vecchi timbri dell'ufficio) e subito Marco lascia la mia mano chinandosi ad esplorare.

Gonfio due palloncini e li getto in aria verso Marco mentre ascolto quanto dicono i genitori.

Hanno i certificati della commissione medica e la valutazione non lascia spazio a fraintendimenti: "minore invalido con necessità di assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita. Indennità di accompagnamento".

Mi chiedono il da farsi, a quanto ammonta l'indennità, come fare per la compilazione delle carte; mi raccontano del loro dolore, della gravità delle patologie del loro piccolo...

Quasi improvvisamente Marco si getta addosso alla mamma, è molto stanco e vuole essere coccolato.

Tra le mani un foglio prende la piega di un aereoplanino che lancio nell'ufficio seguito dallo sguardo di Marco che ride di gusto.

Il papà riprende la parola: "... a Natale saremo all'ospedale di Genova...non sappiamo per quanto tempo".

Raccolgo i loro dati, li informo di quello che sarà l'indennità d'accompagnamento,  intanto accanto a me si avvicina Marco  e mi prende la mano portandola al suo viso strofinandola alle guance e poi sorridendomi mi dice:

"anche gli aereoplanini di carta volano e fanno ridere come gli angeli".          Ho sorriso e l'ho baciato.



P.S. Nel primo pomeriggio di venerdì 21 s'affaccia alla porta del mio ufficio il papà di Marco.  In mano aveva un pacchetto e un foglio con scritto "Ciao  Marco". Nel  pacchetto una mongolfiera in metallo mandatami da Marco dall'ospedale Gaslini di Genova.




  
















domenica 18 novembre 2012

questo nostro Dio compagno di vita



Abbiamo pregato e abbiamo condiviso il cibo.
Abbiamo scherzato e pianto.
Abbiamo partecipato gli uni dell'afflizione degli altri.

Patire insieme è forse più sopportabile.
Il dolore non cessa di essere tale perché condiviso ma è forse più tollerabile. Persino a volte sensato.

Le lacrime scorrono meno feroci se ad asciugarle ci sono gli amici.

E il buio di un seminterrato diventa la più splendente delle cattedrali per incontrare la parola di Dio.

Il pianto si placa nell’abbraccio. 

Una Chiesa che abbraccia rende ospitale un  mondo a volte ostile, a volte chiuso. Indifferente alle lacrime.

Una chiesa che abbraccia accoglie il dolore sempre incomprensibile e assurdo rendendolo persino speranza ai piedi della Croce.

Speranza come nel giorno della Pasqua.

Il segno dell’abbraccio e della condivisione è il segno della vitalità di Dio che ancora abita tra gli uomini.

Son sempre stato attratto dal Dio che piange per il suo popolo, che geme e singhiozza con il suo popolo. 

Mi hanno sedotto le lacrime che il Signore versa per le sofferenze patite dall’uomo. 

Dolore inutile il nostro, di donne e uomini (co)stretti alla vita.
Piegati e piagati del vivere sino allo sfinimento.
Sino all’impossibilità di assecondare il fluire dell’esistere.
Quasi un Dio inutile davanti al dolore e alla morte.

Per simpatia, per condivisione con un abbraccio entra nell’umanità caricandosi  di sofferenze e di morte.

E Dio si fa inutilmente piccolo, umano, nostro compagno di vita.




sabato 10 novembre 2012

Le tre R: Relazioni - Riposo - Risorto

Il business è l'unica legge osservata. La vulgata di questo tempo triste.
Negli ultimi anni s'è imposto un costume nuovo. Certo con gradualità, non in modo sfacciato. Impegnare il giorno di festa, specialmente la domenica, per gli acquisti nei negozi e nei centri commerciali. Ci hanno inoculato un refrain subdolo e falso: lavorare è necessario per uscire dalla crisi. Per cui si deve lavorare nei giorni di festa e di notte. Nel 2011 è avvenuto un fatto nuovo: il primo maggio, la festa del lavoro e per antonomasia giorno di riposo dei lavoratori, ha subito la pressione mediatica e interessata perchè fosse giorno lavorativo. La manfrina usata: la crisi, l'inopportunità di un giorno festivo, la montatura dei tanti e troppi giorni di non lavoro,..
La sacra alleanza tra la grande distribuzione e le imprese commerciali ha stabilito questa legge; il suo vero nome è ricatto. Gli inizi dell'anno in corso coincidono col decreto Salvaitalia (?!) che liberalizza le aperture dei negozi e centri commerciali ventiquattro ore al giorno su ventiquattro, sette giorni su sette la settimana. Certo non si tratta di obbligo ma di sola possibilità.
Si tratta di un fatto nuovo, di natura prima di tutto culturale che intacca il tabù per cui il bene dei consumatori coincide con la massima apertura degli orari dei negozi e centri commerciali. Gli affari sono affari; gli incassi della domenica della grande distribuzione sarebbero inferiori solo a quelli realizzati il sabato. Nessuno scrupolo nei confronti dei lavoratori, delle loro famiglie, dei negozi di vicinato che abbassano le saracinesche per via di una concorrenza spietata e impari, le altre attività diverse dalla compravendita delle merci,..

Ben venga allora l'iniziativa  che parte dalla diocesi di Padova  e raccontata sulle pagine di la Repubblica di oggi a firma di Michele Smargiassi. Cercasi disperatamente vescovi e preti e laici non passivi e coraggiosi.

“Rinunciate allo shopping domenicale” Il vescovo di Padova lancia la crociata
di Michele Smargiassi                   in “la Repubblica” del 10 novembre 2012

PADOVA, parrocchia del Buon Pastore, quartiere Arcella, zona difficile. In canonica Rita, catechista con grinta, fotocopia i “moduli di boicottaggio” da far firmare ai parrocchiani, domenica prossima, all’uscita da messa. C’è scritto: «Mi impegno a non andare a fare la spesa di domenica, per non sostenere con i miei consumi l’apertura dei centri commerciali nei giorni festivi». Scusa  Rita, e se mi manca il burro? «Bussa alla porta del vicino. Così magari ti fai anche un amico».
La sfida è partita. Un’intera diocesi, una delle più grandi d’Italia e forse la più solida, quella di  Padova, la città del Santo, si mette in marcia contro il furto del giorno del Signore. Con la  benedizione del vescovo Antonio Mattiazzo. E senza timore di usare quella parola così forte:  boicottaggio. Sette mesi di campagna all’insegna delle «tre R: Relazioni, Riposo, Risorto», tutte le  parrocchie e le associazioni mobilitate.
Non è più la solita predica. Fin dal Vaticano Secondo la protesta della Chiesa contro il lavoro  domenicale non necessario è severa, non c’è Papa che non l’abbia ribadita dal più alto soglio, ma  questa volta si passa dalle parole anche illustri ai fatti, minuti e probabilmente efficaci. La raccolta  di impegni individuali firmati di boicottaggio è solo il primo. Poi le parrocchie compileranno “liste bianche” di negozi che rispettano la festa, le affiggeranno sui sagrati, le pubblicheranno nei bollettini, le contrassegneranno con adesivi da esporre in vetrina invitando i fedeli a fare spesa solo lì. Poi le cattedrali della fede beffeggeranno le cattedrali del consumo esponendo sulla facciata lo striscione polemico: “Questa chiesa è aperta anche alla domenica”. Poi i giornali diocesani, con un certo sacrificio economico, rifiuteranno inserzioni pubblicitarie di negozi che non rispettano il riposo domenicale. «La cosa più difficile sarà convincere il rettore del santuario di Sant’Antonio a  chiudere il negozio di souvenir alla domenica, ma se non diamo noi il buon esempio... », sorride padre Adriano Sella sulla soglia della cappellina di san Giuseppe Lavoratore, in piena zona  industriale.
Ex missionario in Brasile, tornato in Veneto perché «ormai la terra di missione è qui», direttore  della “Commissione diocesana per i nuovi stili di vita”, padre Adriano è l’uomo che ha ideato e  coordina la mite ma decisa offensiva. «Non è una crociata contro i supermercati. È la riscoperta del valore del tempo del riposo, della famiglia, delle relazioni umane. La domenica non è l’ultimo  giorno del weekend, e non è neanche soltanto il giorno del Signore, anche noi, Chiesa, dobbiamo evitare di riempirla di riti e cerimonie. Il giorno senza lavoro è una necessità primordiale,  antropologica dell’uomo, non solo un comandamento del credente. Il riposo infrasettimanale non  compensa nulla, perché ciascuno ha un giorno diverso e non ci si incontra più: mentre la domenica è  della comunità, è di tutti ed è assieme», spiega mentre guida sulle strade della provincia a distribuire  il vedemecum di 24 pagine con le istruzioni dettagliate per la campagna e a incoraggiare le sue  truppe disarmate.   Nell’anno 304 ad Abitène, oggi in Tunisia, 304 cristiani affrontarono il martirio al grido di «senza  domenica non possiamo vivere!». Ai boicottatori dello shopping, padre Adriano chiede molto meno  sacrificio ma più fantasia. E la trova. A Due Carrare Caterina, responsabile del patronato di San  Giorgio, ha coinvolto l’amica professoressa Anna Chiara, e domenica si porta tutto il paese a  passeggio tra le sconosciute memorie storiche della zona, l’abbazia di Santo Stefano, il ponte    
romano, la villa veneziana: «La gente scappa nei centri commerciali perché ha paura del vuoto della
domenica. Bisogna offrire alternative ». A Cazzago Gianni Simonato, tecnico informatico, sta ridipingendo il vecchio circolo Acli: «Offriremo il caffè dopo la messa, per continuare a stare  insieme », come si fa in certe chiese anglicane. In sala biliardi un monitor sempre acceso pubblicizza il boicottaggio. Qui la minaccia è seria, si chiama Veneto City, progetto di megacentro commerciale in piena campagna, «già adesso la domenica il paese si svuota, vanno tutti a Padova o  a Mestre a fare spese, figuriamoci dopo». A Maserà, nella sua curiosa chiesa-pagoda, don Francesco  Fabris è preoccupato: «Vengono le mamme commesse di negozio a chiedermi aiuto, “fate qualcosa  voi, il sindacato ha già firmato l’accordo per il lavoro domenicale”, cosa posso fare per queste  persone?». Il 4 marzo scorso a Padova le commesse sfilarono per strada con il codice a barre  appuntato sui grembiuli per dire “la domenica non ha prezzo”. Bene, don Francesco farà qualcosa:  domenica 18 metterà una tenda davanti alla chiesa per pubblicizzare il boicottaggio. Antonio fa il
cassiere in un ipermercato di un grosso centro della provincia, «tre domeniche al mese obbligatorie, sto per sposarmi, penso ai miei figli: potrò stare con loro solo un giorno al mese?», allora ha organizzato un boicottaggio privato e controllato: ha imposto a parenti e amici di non farsi vedere da lui in negozio alla domenica, «qualcuno poi passa lo stesso, arrossisce e mi chiede scusa... ».  Battaglia difficile, Rita la catechista lo sa. «Vanno a fare shopping perché così anche la domenica  possono evitare di parlare con altri esseri umani: parlano solo con le scatolette di pomodoro». Don Vlastio, il suo parroco, cerca di contenerla un po’: «Non dobbiamo colpevolizzare nessuno... ». Ma  a sorpresa, la campagna che sta per partire conta già un convertito eccellente, nientemeno che il  comandante del campo avverso, il presidente dell’Ascom di Padova Fernando Zilio, lui che per un anno ha bisticciato sui giornali locali con il vescovo proprio per le aperture domenicali, ma che si è ricreduto quando, con le liberalizzazioni del governo Monti, ha visto la potenza di fuoco delle grandi catene dell’“aperto ogni domenica!” abbattersi disastrosamente sul fatturato dei suoi “piccoli”, i negozi a conduzione familiare: «Aveva ragione monsignor Mattiazzo, ha visto più avanti di me. Qualche negozio nei centri storici, per il turismo, può anche aprire alla domenica, ma questo sistema non è giusto, e forse non rende neppure». Padre Adriano si attende molti altri folgorati sulla via dello shopping.



domenica 4 novembre 2012

nessun potere può legiferare sull’amore



In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo. 
  Mc 12,28-34
E' la lettura del Vangelo della giornata di oggi.        E’ poca cosa ogni commento. 
Vale l’ascolto, l’assimilare queste parole fino a renderle respiro del nostro vivere.   
Al punto da renderle medicina che sana le nostre ferite, energia creatrice che trasforma e vivifica ogni rapporto. 
Il primo comandamento, lo spirito vitale, il respiro dell’universo è questo: amare.
La vita si declina con l’amore; ogni istante in ogni gesto si misura con l’amore dato e ricevuto. 
Cos’è l’essenziale della fede?  Nelle parole di Gesù la novità della fede cristiana.
Una novità che diventa criterio interpretativo del primo comandamento e ribalta ogni prospettiva religiosa.
Fondamentale è l’altro e l’altro vicino, cioè non un altro spirituale, metafisico  ma quello che ho fisicamente accanto.
Quella persona anche se a volte mi sta sulle balle, m’infastidisce, con la quale incrocio lo sguardo,  quella che posso prendere per mano.
L’amore è materiale, carnale e sanguigno, è contatto fisico, è continuamente l’interpellarti ad essere attento, è  costantemente richiesta d’essere accolto e abbracciato.
Così per Gesù l’amore non è un sentimento per anime belle, spiritualizzato e lontano.
Anche l’amore per Dio non è aeriforme e angelicato.   
Si ama Dio in una storia che trasuda concretezza, abbraccio di un corpo, di un volto e braccia da stringere rischiando la propria vita,   fino a perderla.    
Vado oltre.  Fino forse al confine. 
Fino al punto di considerare e ammettere che questo amore così reale e fisico non è assoggettabile  a norme.  
Ti amo per come sono e per come sei.
L’amore non ammette controlli, non tollera autorizzazioni e patentini di legittimità.
(In Francia in questi giorni si scontrano l’episcopato e il governo sulla possibilità di riconoscere e dare pari dignità pubblica all’amore di due persone dello stesso sesso).
Nessun potere può legiferare sull’amore.




venerdì 26 ottobre 2012

Compassione e speranza

"....ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai loro troni e innalzato gli umili, ha colmato di beni gli affamati e rimandato i ricchi a mani vuote..." (Lc1,51-53)

Compassione (dal latino cum patior , stare con l'altro quando soffre, partecipare alle sofferenze altrui) e speranza sono forse queste alcune parole oggi mancanti nel vocabolario politico e persino religioso.

Il desiderio, il piacere, la passione per l'uomo, avere l'ambizione di saper vedere dove e come si sta promuovendo la sua liberazione, non è un optional.
Non è un esercizio attivabile a seconda di slogan alla moda e delle convenienze. Di partito o di chiesa.

Stare con chi soffre è la cifra più alta e nobile dell'umano reso fratello, prossimo, così intimo da superare divergenze, incomprensioni, ideologiche lontananze.  Chinarsi e condividere la sofferenza è l'inizio dell'amicizia. Il cominciamento di un linguaggio pienamente umano, pienamente divino. Il tu e l'io si fondono in un silenzio dove risalta la comprensione e l'accoglienza. Solo lo sguardo dice e accoglie, solo le braccia dicono e accolgono.

Si comprende appieno solo la storia delle persone con cui si vive, di cui si compatisce un frammento di vita o della conoscenza in nudità di momenti lungo un pezzo di strada fatto insieme.
Istanti di un esistenza condivisi.

E la speranza per chi ha gli occhi colmi di lacrime può risorgere.

Sono questi i sentimenti e le riflessioni che sono nate questo pomeriggio quando nei miei uffici è entrata una giovane donna di colore con due suoi figli, piccoli.

Piangendo mi dice in un italiano stentato che ha perso il marito, una grave malattia lo ha divorato in poco tempo.  Aveva trentacinque anni. Lavorava da qualche tempo non in regola in una piccola fabbrica in provincia.

E' la vita di tanti altri così nascosti, così lontani eppure prossimi.

Poi la malattia lo ha costretto a starsene a casa sino a quando il padrone non lo ha più voluto.

Il marito era entrato in Italia da oltre dieci anni e lei da soli tre lo ha raggiunto lasciando la sua gente e la sua terra, nel Camerun.

Questa donna non ha diritti, nè salvaguardie.
Non avrà una pensione di reversibilità. Vive ora grazie ad interventi una tantum di enti benefici.

 Il piccolo comune dove vive non può provvedere a lei e ai suoi figli.

L'assessore ai servizi sociali, una signora certo affabile e gentile, con cui ho parlato per telefono, me lo ha ripetuto all'infinito: non ci sono soldi, il comune ha un bilancio risicato, non è neppure una cittadina italiana,...

 Le ragioni della politica spesso nascondono la ragione.

Così questa vedova, piena di dignità con i suoi due figli piccoli, vuole ritornarsene nella sua terra.

Mi sono commosso. Non avevo parole. Davanti alla sofferenza si è muti.

Ritorna nel suo paese perchè così mi ha detto: "là chi è abbandonato da tutti è con Dio".











martedì 16 ottobre 2012

Tentare, desiderare, resistere

L'aridità del tempo presente avvizzisce ogni cosa, smorza passioni, spegne fantasie, annichilisce sogni.
Arduo scommettere; anche solo per spavalderia e incoscienza.

La rabbia monta mescolandosi alla rassegnazione e come divorati da buchi neri è facile il ripiegarci sino a non vedere altro che noi stessi, gelosamente  trattenendo gli affetti che abbiamo e la nostra "roba".

Manca una scintilla, una presenza che mantenga vivo il desiderare, un qualcuno che sappia tenere desto il sogno, mostrare un orizzonte, una sfida che ancora ci faccia sentire vivi e carichi di passioni.         Che persino ci urli:  "ne vale la pena vivere così?".

E poi tentare, desiderare di tentare resistendo al pavidume collettivo.

Opporsi al torpore e riaccendere nel cuore il desiderio della sfida, della lotta.

Cercare sino allo sfinimento altri  uomini e donne con cui tessere possibilità di vita autentica.




 Gran Kan:  
"tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente".

Marco Polo:  
"L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.     Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facili a molti: accettare l'inferno e   diventarne parte fino al punto di non vederlo più.  Il secondo è rischioso ed esige attenzione e   apprendimento continui:

cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è l'inferno, e farlo durare, e dargli spazio".  
 (da "Le città invisibili" di Italo Calvino) 

 

mercoledì 10 ottobre 2012

Parole colorate

Un pensiero ricco, pieno di colori e movimento, semplice e leggero.
La semplicità di un bimbo, la leggerezza di mio figlio di sette anni.
La poesia della sua vita a colori.

"Un cielo supremo azzurro delicato,
accompagnato da tante nuvolette rotonde
bianco leggero.

Sul gran mare azzurro forte
una piccola barca rosso pastello
con la vela triangolare
d'oro brillante"

                                               Daris

mercoledì 3 ottobre 2012

La Croce e i ladroni

Comunque sia e ovunque verranno appesi quei crocifissi acquistati dalla regione Lombardia grazie alla legge approvata un anno fa dalla Lega e  dal Pdl mi fanno ritenere che si voglia ostentare appartenenza e identità dopo che dio Po e dio quattrino la fan da padroni. Ma più di tutto spiccano attorno alla croce i ladroni (beninteso non crocifissi, non ancora almeno) che a quanto pare non se la passano poi tanto male.





lunedì 17 settembre 2012

"...lo Spirito Santo è stato narcotizzato"



Ci sono vari modi per non ricordare qualcuno.
Il modo forse peggiore è quello di tracciarne a grandi linee la sua vita per decretarne la morte certa.
Un altro modo è quello di dimenticare, sino a cancellarne ogni traccia.
Infine (sono limitato nella vista, vedo solo questi) un altro modo ancora è quello di recuperarlo alla memoria per denigrarlo, per farlo apparire nel peggiore dei modi possibili. Per attribuirgli ogni responsabilità di declino, di fallimento.
L’ufficialità della Chiesa è silente e latita nel celebrare un evento con la “e” maiuscola.
Eppure molte cose sono cambiate al punto da sortire un prima e un dopo, uno spartiacque tra il pre-e il post concilio.  
“L’aria è pesante, i profeti sono morti o in pensione e lo Spirito Santo è stato narcotizzato”. Così un  mio amico sacerdote liquida sarcasticamente la situazione odierna della Chiesa.
Rimane la pesantezza del tempo presente.
E voci isolate, esperienze monadiche, vitalità quasi sommerse che raccontano semi di speranza che creano incontri, intrecci. Quasi in clandestinità.  Catacombali.   Per raccontare di un qualcosa che ha scaldato di nuovo il cuore di donne e di uomini.
Come a Roma sabato scorso all’incontro Chiesa di tutti, Chiesa di poveri.  Dove il popolo di Dio si è autoconvocato, riunendosi in libertà, senza ipocrisie. Si è confrontato con fiducia, senza calcoli preventivi dettati da tatticismi e "viscidismi" curiali, opportunismi. Forse lo Spirito ha tirato un soffio di sollievo.

Riporto quanto scritto da Vito Mancuso sulla Repubblica del 14 Settembre.

Un vento di aria pura che oggi è imprigionato
di Vito Mancuso
in “il venerdì” - la Repubblica - del 14 settembre 2012
La guerra che si combatte nella Chiesa sul Vaticano II sta tutta in questa domanda: che rapporto c'è  tra il più importante evento ecclesiale del Novecento e la Tradizione precedente? Le risposte sono tre: la  destra tradizionalista sostiene che fu una rottura così radicale da essere tradimento; il grande centro parla di  continuità; la sinistra afferma che fu una svolta così positiva e radicale da costituire un nuovo gioioso inizio.
La Chiesa gerarchica nella sua ufficialità è attestata sulla rassicurante risposta numero due con importanti  interventi di Benedetto XVI al riguardo, mentre le minoranze di destra e ai sinistra. accomunate dalla  tesi della discontinuità, sono molto più inquiete e premono ovviamente in direzioni opposte: la destra  per fare marcia indietro, la sinistra per proseguire lo spirito di apertura al mondo del Vaticano II. In realtà  basta accostare le decisioni più significative del Vaticano II alle impostazioni preconciliari per  cogliere una tale differenza da rendere legittimo, anzi doveroso, parlare di discontinuità: 1) la Bibbia,
da testo sconsigliato e persino vietato ai laici, viene promossa e diffusa ampiamente; 2) gli ortodossi e i  protestanti da scismatici ed eretici diventano «fratelli separati»; 3) gli ebrei da «perfidi giudei»  diventano «fratelli maggiori»; 4) le altre religioni da idolatrie diventano vie verso Dio e la salvezza; 5) la  libertà di coscienza in materia religiosa passa dalla condanna a esplicito insegnamento papale; 6) il  potere viene ripensato alla luce della collegialità; 7) la liturgia ha un nuovo rito, si abolisce il latino, si  sposta l'altare. Ma al di là delle singole decisioni, era anzitutto il clima a essere radicalmente diverso.
Ha dichiarato il cardinal Martini in un'intervista ad Aldo Maria Valli: «Conservo il ricordo
dell'atmosfera di quegli anni, una sensazione di entusiasmo, di gioia e di apertura... si usciva finalmente  da un'atmosfera che sapeva un po' di muffa, di stantio, e si aprivano porte e finestre, circolava l'aria pura».
Come siamo messi oggi? Ancora Martini: «Ciò che si è perso è proprio quell'entusiasmo, quella  fiducia, quella capacità di sognare... si è tornati a una certa mediocrità». L'aria, insomma, si è fatta di nuovo  pesante.
Il Vaticano II ha avuto una maggioranza progressista e una minoranza conservatrice. A distanza di  mezzo secolo la minoranza di allora è diventata maggioranza di oggi, segnale di un complessivo  cambiamento a livello mondiale, con tempi sempre più incapaci di nutrire ideali e coltivare speranze.
Ma nella Chiesa il problema è più complesso e consiste nel fatto che l'attuale maggioranza sta  facendo tabula rasa del campo avversario, privando la Chiesa di una dinamica essenziale alla vita e alla  riflessione. Dopo la morte di Martini nella gerarchia della Chiesa italiana le voci di quella che un tempo fu  la maggioranza conciliare sono forse ormai solo tre: Dionigi Tettamanzi, Luigi Bettazzi e Giuseppe  Casale, tutti vescovi emeriti, in pensione. Da anni il Vaticano produce nomine tutte a senso unico, tra cui clamorosa quella di Scola a Milano visto che mai un patriarca di Venezia aveva lasciato San Marco se non per  fare il papa, e che si spiega solo come il colpo finale agli ideali del rinnovamento conciliare. Se a questo si aggiunge la repressione della teologia e di ogni forma di critica il quadro è completo. Nell'ultima intervista  Martini ha dichiarato: «Vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza», parole che potrebbero essere sottoscritte dalla gran parte dei vescovi e dei periti teologici che cinquant'anni fa arrivavano a Roma per il Vaticano Il. L'ironia vuole che proprio uno di  essi sia oggi il pontefice regnante, tra i principali responsabili di questa cupa situazione.

venerdì 7 settembre 2012

Il coraggio del cuore

  
Hillman, James Hilman; filosofo e psicanalista americano allievo di Carl Gustav Jung, morto a Firenze l’anno scorso, è noto a molti per il suo libro "Il codice dell'anima".
Ho riletto alcune pagine di un altro suo libro: “Politica della bellezza” pubblicato nel 1999 dall’editrice Moretti & Vitali.
Da leggersi a beneficio del cuore e dell’intelligenza.
Di cosa parla? Di bellezza e di politica e di civiltà. Di vita umana.
Ci ricorda come premessa che il fondamento nella vita della Grecia antica, il seme della civiltà occidentale, era il cercare di coniugare la dimensione estetica a quella politica, il bello e il vivere civile.  Cosa rimane oggi di questa ricerca?  Dice Hilman: "il nostro senso del bello o del brutto ci porta fuori, nella  polis, attivandoci politicamente”.
In fondo a ben vedere coglie nel segno il nostro vivere: per il solo fatto di accorgerci, di renderci conto di ciò che ci circonda e con il quale, nel bene e/o nel male, ci imbattiamo quotidianamente, ci permette di dare risposte le quali non sono altro che il segno del nostro essere coinvolti.
Hilman afferma che noi siamo "inconsci delle nostre risposte estetiche" e quindi l’invito, quasi una esortazione, a diventare coscienti della nostra memoria e dei nostri sentimenti (come d’altra parte insegna la psicologia tradizionale) e di più:   
"risvegliando le nostre risposte personali al bello e al brutto".
Il brutto, il kitsch nel quale ci imbattiamo quotidianamente (negli edifici dove abitiamo,  per le strade, nelle chiese, nelle scuole, nei posti di lavoro) dove la sciatteria, la trascuratezza  e la volgarità ci accompagnano, ci mettono quasi nelle condizioni di ignorare il mondo (o meglio, ci abituano a considerarlo in negativo). Al punto di disabitarlo, abitandolo come se non fosse casa nostra,senza cura ne’ interesse. Usandolo e violentandolo.
Dice infatti Hilman: "Questo stato di ignoranza, questa anestesia, è in larga misura la condizione umana attuale. Ed è sostenuta e favorita dalla nostra economia, dal nostro modo d'impiegare il tempo libero, dai nostri mezzi di comunicazione e di trasporto e, naturalmente, dai nostri modi di curarci".
Non solo; addirittura pone l’accento sul fatto che l’ottundimento psichico che ci circonda e condiziona “favorisce la passività politica del cittadino”.
Continua Hillman:  "Se noi cittadini non facciamo caso all'assalto del brutto, restiamo psichicamente ottusi, ma siamo ancora affidabilmente funzionali come lavoratori e come consumatori".
Come reagire? Quali risposte trovare?quali politiche attuare? La risposta di Hilman è: “il coraggio del cuore”.       "Ciascuno di noi può essere un eroe del cuore, perchè questo tipo di risposta personale, per quanto  semplice possa sembrare, va ancora più in profondità delle consuete proteste sui generi, sul razzismo, sull'ambientalismo. Qui non ci sono "ismi", non c'è ideologia: siamo al servizio dell'inestinguibile desiderio di bellezza che ha l'anima".
"Sono fermamente convinto che se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza, ci sarebbe ribellione per le strade"
Pare di ascoltare le parole di un grande teologo, Von Balthasar,  "..in un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso – in un mondo che non è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto… In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica".

P.S. questi pensieri li ho avuti dopo che i miei occhi e il mio cuore nel periodo delle vacanze si sono nutriti di cose belle, tra cui la Fraternità di Romena, una pieve del dodicesimo secolo immersa nella natura del casentino. Qui la Bellezza diventa carne anche nella presenza della fraternità guidata da un sacerdote don Luigi Verdi.

 File:Pieve di romena.jpg


venerdì 31 agosto 2012

Il Cardinale

 E’ morto il cardinale, il cardinal Martini.
Di lui ho alcuni ricordi. Siamo sul finire del settembre 1988 a Milano, nella cascina Molino Torrette nel cuore del parco Lambro. Un cascinale di proprietà del comune di Milano concesso  in comodato all’opera don Calabria,  consegnata dall’allora sindaco Pillitteri a don Antonio Mazzi, fondatore del gruppo Exodus.  Insieme ad alcuni altri educatori siamo stati i pionieri, operatori della comunità del parco Lambro, trasferiti da via Pusiano sede della congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza al rudere di via Marotta. 
Il cardinale insieme a don Mazzi esce dall’auto per visitare la cascina ancora da sistemare; il disordine, i mobili improvvisati ad arredo regalati da qualche amico, alcune parti del tetto gravemente compromesso.
C’erano alcuni giovani frequentanti il neonato centro diurno (il primo a Milano) inviati dagli allora NOT (nuclei operativi tossicodipendenze), ed un paio alloggiati provvisoriamente in forma stanziale in una camera sistemata alla bell’e meglio.
Siamo rimasti sotto il porticato, con un tavolo da ping pong posto contro il muro e una decina di sedie a cerchio. Una volta terminato il giro del cascinale occupiamo posto a sedere e il cardinale incomincia a parlare della grave sfida educativa che ci attendeva. Delle difficoltà (“quelle economiche sono sempre superabili ma dovrete fronteggiare quelle culturali, quelle fatte di pregiudizi e di indifferenza”), delle gioie (“la sfida educativa è la lotta che l’uomo ingaggia per continuare l’opera di dio, per fare si che l’uomo s’avvicini sempre più al volto paterno e materno di dio”) e della sofferenza(“la compassione, lo stare vicino a chi soffre è la cifra più alta dell’umanità”).
Chiese poi a ciascuno di noi da dove venissimo, quali studi avessimo fatto, le motivazioni del nostro essere lì tra i tossici, i disperati, i malati.
Il cardinale rimase con noi un paio d’ore ascoltandoci, informandosi delle nostre necessità, delle nostre paure, dei fallimenti e dei sensi di sconforto. Gettava luce sulla grandezza dell’uomo, anche e ancor di più quando piegato dall’AIDS e crocifisso; anche quando nessun altro, neppure madre o padre, scommette più nulla sul proprio figlio.
Ci propose di recitare il Magnificat e alcuni di noi non sapevano le parole. Il cardinale pose l’accento su due passi:  “…grandi cose ha fatto di me l’onnipotente…” e “…ha innalzato gli umili…”.
Ho colto  nella breve esegesi che fece l’intima connessione tra la chiamata speciale (per ciascuno c’è una chiamata e per questo è speciale; e lo è doppiamente perché il Signore è fiducioso e affida ad ognuno il compito di fare grandi cose nella/della vita) e il servizio che è compito di tutti e pressante ancor di più per i cristiani, di promuovere la pace e la giustizia, rimuovendo ogni ostacolo nel tentativo di dare/ridare consapevolezza e dignità agli uomini soprattutto a chi è piegato nel corpo e nello spirito.
Nella semplicità e nella cordialità dell’incontro ho trattenuto la prossimità, il sincero ascolto e l’intima vicinanza che è rimasta a noi, alla comunità.
Ci salutò stringendoci la mano e accogliendoci con un abbraccio.




giovedì 16 agosto 2012

La chiesa i cristiani e le guerre

Sono sui monti disseminati di morti, bagnati dal sangue di decine di migliaia di morti. la retorica li chiama(va) la "meglio gioventù". A girare per trincee e gallerie, a ripercorrere le strade dei "sacri monti". M'inchino ai morti, a chi è caduto nel fiore degli anni. Ovunque su queste cime si trovano cippi lapidi croci a ricordo di soldati uccisi italiani austriaci francesi... Solo ieri ho letto il paginone di Avvenire dell' 8 Agosto scorso dedicata  "agli eroi per la pace".
In essa si diceva: «Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti, ma convergenti, perché la condizione militare trova il suo fondamento morale nella logica della carità».
No, non mi riconosco in queste posizioni che sono naturalmente "autorevoli" poichè oltre che pubblicate dal quotidiano dei vescovi italiani, espresse dall'ordinario militare il vescovo monsignor Pelvi. 
Sottoscrivo (e invito i lettori del mio blog a fare altrettanto) la lettera-appello di Pax Christi che qui riporto.

 

Lettera – appello di Pax Christi

Davanti ad ogni vita umana stroncata è doveroso un rispetto profondo. Ma proprio in nome di tutte le vittime delle guerre, chissà quanti lettori di Avvenire sono rimasti scossi per quell’intera pagina dedicata agli “eroi per la pace”, e a quella realtà così “convergente” di soldati e cristiani. (8 agosto 2012, pag.3).
Ecco, lo diciamo forte: è davvero insopportabile questa retorica sulla guerra sempre più incombente e asfissiante.
Da sempre l’esperienza cristiana ci ha impegnato nella cura della “missione” e ci scandalizziamo ogni volta che un cristiano infanga questo valore confondendolo con le guerre -chiamate appunto “missioni di pace”- ma in realtà “avventura senza ritorno”.
Da sempre abbiamo presentato ai cristiani gli eroi della fede e ci scandalizziamo se ora volete rappresentarli con le armi in mano e, per nascondere le responsabilità di tanto sangue versato in questa “inutile strage”, fate diventare “eroi per la pace” questi giovani strappati alla loro vita, vittime della guerra.
Ci colpisce non veder affiorare nemmeno uno degli interrogativi che gli italiani e i cristiani si pongono ormai da anni, assistendo alla fallimentare carneficina afgana: La nostra presenza militare in Afghanistan costa 2 milioni di euro al giorno, e quali sono i risultati? Se li avessimo investiti in aiuto alla popolazione con ospedali, scuole, acquedotti non avremmo forse tolto consenso ai talebani e ai signori della guerra? E delle vittime in ‘campo nemico’ chi se ne occupa? Abbiamo i numeri esatti dei morti e feriti italiani! E quante sono le vittime irachene o afghane? Forse dobbiamo rassegnarci a considerare le migliaia di esseri umani uccise in questa assurda guerra solo “effetti collaterali”?
Ci colpisce molto leggere che anche l’Ordinario militare si allinea a questa retorica della guerra dichiarando, per esempio che fare il militare è “una professione aperta al bene comune e allo sviluppo della famiglia umana” oppure sostenendo che “i cappellani militari sono parroci senza frontiere, impegnati in una pastorale specifica sul fronte della pace”. Ce ne vuole davvero a descrivere “l’aeroporto di Ciampino dove arrivano le salme dei nostri soldati uccisi” come “una scuola di fede”. E ancora “Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti”. Come cristiani e come sacerdoti restiamo stupiti per questo assai strano insegnamento magisteriale e, alla luce del Vangelo, siamo sconcertati.
Siamo certi che anche il Direttore di Avvenire, oltre che ovviamente il Vescovo Pelvi, ben conosca la sapienza ecclesiale, supportata dal Magistero della Santa Sede, che ci ha insegnato a discernere i diversi modi di affrontare i conflitti internazionali, a partire dalle testimonianze dei primi martiri cristiani, che rifiutavano il servizio militare e non bruciavano il grano d’incenso all’Imperatore considerato una divinità. Come non ricordare il martirio di S. Massimiliano (295 d.C.) condannato a morte “poiché, con animo irrispettoso, hai rifiutato il servizio militare” “quia in devoto animo militia recusasti”) E quante testimonianze di martiri dei nostri giorni abbiamo ancora da raccontare.
Proprio oggi, 9 agosto la Chiesa ricorda il Beato Franz Jagerstatter, obiettore di coscienza contro il servizio militare nel III Reich di Hitler (mentre la maggior parte dei cattolici combattevano) e per questo ghigliottinato il 9 agosto 1943. E’ stato Papa Benedetto XVI, nel 2007, a proclamarlo beato e martire nel suo opporsi al servizio militare e alla guerra!
Chiediamo di aprire un confronto serio e schietto sul tema della guerra, del servizio militare, oggi non più legato all’obbligo della leva, e della presenza dei Cappellani tra i militari, magari proprio con il Direttore di Avvenire e l’Ordinario militare. L’unica occasione di confronto risale al lontano 1997, in un convegno a Firenze promosso da Pax Christi, con un rappresentante dell’Ordinario Militare. Come era stato detto allora ribadiamo l’esigenza che “ si ritorni a discutere sul ruolo dei Cappellani Militari, non per togliere valore alla presenza e all’annuncio cristiano tra quanti, soprattutto giovani, stanno vivendo la vita militare, ma per essere più liberi, senza privilegi e senza stellette”.
A 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II crediamo doveroso riaprire un riflessione seria sulla condanna della guerra e sulle strade che sono chiamati a percorrere gli operatori di pace.
Seguono firme.
PER ADERIRE : inviare una MAIL con il proprio Nome, Cognome e Città a drenato@tin.it   oppure a nandyno@libero.it
PER CONTATTI:
Don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale Pax Christi Italia   nandyno@libero.it      3473176588
Don Renato Sacco, Cesara – Vb      drenato@tin.it    348- 3035658

venerdì 27 luglio 2012

Non vi fate sedurre

Ci bastava poco, allora.
un paio di sigarette un bicchier di vino
un po' di musica alla chitarra
"vecchia piccola borghesia .... trionfi la giustizia proletaria.... e tirare i sampietrini nell'incendio di...el pueblo unido jamas serà vencido..."
l'incazzatura che stemperava  in risate
sino a notte fonda.

Ci bastava poco, allora
neanche i soldi per un biglietto del treno
l'uscita a Milano 
bici sgangherate e autostop

Ci bastava poco,allora
il locale in via Cardano, le canne 
all'università
le ubriacature dal Gepe,
"e le spranghe sui fascisti e le pietre sui gipponi...
wish you were here..."

a casa del Giò a sognare.
Ci bastava poco, allora. 



 Mi è capitato tra le mani un vecchio libro di Brecht "poesie e canzoni" appartiene al mio passato, furibondo e goliardico. Tempo d'audacia e incoscienza, di fremiti di lotte e d'amori. Di punti esclamativi.  Mi sono commosso per le sottolineature e gli appunti con inchiostro blu e rosso vergati dalla mia mano ventenne, per una frase della poesia "contro la seduzione" col punto esclamativo feroce e possente: 
" Non vi fate sedurre: non esiste ritorno. Il giorno sta alle porte, già è qui vento di notte. Altro mattino non verrà."

ddv




lunedì 9 luglio 2012

Tu sei l'ìpotesi positiva

Appartiene alla memoria, giovani ed ebbri di vita. Appassionati fino ad assaporare il limite del respiro,  fino a sfiorare la morte. Gustare lo struggimento per quel già e non ancora baluginato davanti agli occhi.  E' di un tempo lontano eppure ancora vivo, passato,  ma basta poco a riportarlo in vita. La nostra memoria c'accompagna. Quella positività di cui, comunque, accattoni e miseri, abbiamo a tratti goduto, traditi e traditori ma sempre, da sempre, ci possiede e ci guida. Riconoscenti.  


Le due grazie che il Signore dona sono:
la tristezza e la stanchezza.
La tristezza perchè mi obbliga alla memoria
e la stanchezza perchè mi obbliga alle ragioni per cui faccio le cose.

Fà, o Dio
che una positività totale guidi il mio animo,
in qualsiasi condizione mi trovi,
qualunque rimorso abbia,
qualunque ingiustizia senta pesare su di me,
qualunque oscurità mi circondi,
qualunque inimicizia, qualunque morte mi assalga,
perché Tu, che hai fatto tutti gli esseri,
sei per il bene.
Tu sei l'ipotesi positiva su tutto ciò che io vivo.

Luigi Giussani

lunedì 18 giugno 2012

M'accorgo


 M'accorgo


Mi accorgo,
qui ora,
di momenti ricchi, 
gravidi di frutti, attese e speranze.

In altri giorni, pesanti e opachi,
gli occhi faticano nel buio.

E qui ora, in questa precarietà e arsura,
tremando e rallentando nel passo,
all' esistere stanchi 
resistiamo,
ai nostri limiti aggrappati.

ddv

mercoledì 30 maggio 2012

in capite et in membris

Arduo riaversi dalla sconcerto provocato dalla vicenda dei “corvi”. Ancora più arduo trovare la voglia di dire ancora qualcosa, quando  (pare) sia già stato detto tutto e il suo contrario. Si rimane comunque in attesa di ulteriori sviluppi. Non so se auspicarlo o temerlo. 
Ma e se si cominciasse a rimarcare una oggettiva e incontrovertibile realta? quale? bè tanto per cominciare che il Vaticano non è la chiesa; è uno stato, punto. Con tanto di funzionari, dignitari, corrotti, corruttori e corvi, cornacchie e quant'altro. (bisogna sempre distinguere e a livelli via via superiori, unire se del caso).
Poi che la chiesa non è Gesù Cristo. Punto.
Inoltre che la chiesa non coincide con la fede. Ancora punto.
E poi che la chiesa è sempre da riformare.
Occorre coraggio, un pò di fiducia (fede) in quello che è l'oggetto (il senso, la direzione, l'anima, il motivo  del suo stesso esistere e permanere: la fede nel Signore) e osare a prendere di nuovo il largo.
Senza protezioni; senza banche, poteri, maggiordomi, lecchini e baciapile d'ogni risma.
 La fotografia di una chiesa (di una gerarchia abbarbicata ai poteri e tutta presa da intrighi di palazzo, che si crogiola tra la finanza e le botteghe di partito) che si specchia in un'epoca, in un contesto sociale smarrito e perso, sempre più lontana, persino anacronistica e incapace di esprimere parole coniugate ad un agire coerentemente pregnante, non può che offendere e scandalizzare. Certo ciò può sollecitare a riscoprire la nostalgia della purezza, della bellezza; può riaccendere in semplicità il desiderio di Dio. Ma a quale prezzo? 
Fino al punto di non sentire la mancanza di una tale Chiesa? Fino ad auspicare e pregare incessantemente perchè si ritorni ad una riforma "in capite et in membris"? Fino a pensare di poter vivere una vita di fede a prescindere dalla chiesa? Come se essa non ci fosse? (lo ammetto e senza compiacimento, è questo da qualche tempo un pensiero insistente in me condiviso da molti altri cristiani).
 


giovedì 24 maggio 2012

Elargire al mondo un sorriso

Intercetto gli umori delle persone che entrano nei miei uffici. Sono umori contrassegnati da preoccupazioni di salute, economiche. Di solito colgo profondi disagi umani, familiari.Sento paura, a volte disperazione. Sfiducia, impotenza, rabbia. E poi ancora barlumi di fioca speranza per l'arrivo di un figlio, un nuovo nipotino...
Stamane è arrivato da me un prete, un sacerdote diocesano. Mi espone il perchè ha voluto incontrarmi. Poi irrimediabilmente il discorso è caduto sulla fede, la chiesa e il tempo presente. Una lagnanza e una rassegnazione totale.  Lui, uomo di fede, inaridito e reso quasi chiuso e cieco. Mi ha fatto pena; umanamente pena. Mentre parlava mi chiedevo che cosa mai quest'uomo potesse annunciare, quale gioia, quale speranza, quale Dio testimoniare. Poi subito ho corretto il pensiero mettendomi nei suoi panni (e anch'io mi sono visto passibile di un giudizio altrettanto impietoso!).
Eppure...Nulla di nuovo sotto il sole; ogni epoca ha le sue ricchezze e le sue pene, i suoi segni di speranza e i suoi abissi. Tutti i tempi sono tempi di crisi,  di passaggio, di cambiamento; nessuna età della storia umana è stata un’età di progresso inarrestabile, stabilità,  saggezza, benessere. Non credo ad una mitica età dell'oro, al tempo cristiano perfetto dove il modello celeste si incarnava sic et simpliciter tra le cattedrali e i monasteri a disegnare città di dio e città dell'uomo.
Dunque il tempo che ci è dato da vivere non è migliore o peggiore di altri tempi. Anzi: per quante involuzioni, per quanti fallimenti e sconfitte dell’umanità, e in particolare della Chiesa, possiamo registrare, ci sono state certamente età peggiori. Penso addirittura che il tempo presente sia migliore di quei tempi conosciuti dai nostri padri e dai loro padri.   Erano forse migliori i tempi in cui l'impero si definiva "sacro" e la società era ufficialmente, cristiana?   Ritengo che il tempo presente, pur opaco e bolso, sia un tempo di purificazione, di decantazione certo difficile da vivere nel quotidiano degli individui, delle famiglie.  Difficile perchè gli scenari cambiano repentinamente, perchè la crisi economica, etica, politica ci inquieta attanagliandoci e adombrando sicurezze acquisite, riferimenti che sembravano inossidabili. Ancor più difficile perchè il nostro presente ha creato vuoto e solitudine, riducendo gli uomini a monadi, esseri isolati e impauriti.  Un tempo difficile perché la morale comune non coincide più con la morale cristiana, e la sapienza e le virtù sembrano ormai anticaglie. E' dunque un tempo di purificazione e sicuramente sarà lungo, persino opprimente. Violento, si persino violento. Ed è per questo indispensabile addestrarci alla pazienza, allenarci alla lentezza, vivere maggiormente la dimensione dell'attesa, trovare ristoro e sostegno nell'abbraccio di una comunità, della famiglia. Ristabilire rapporti umani, caldi e autentici.  Ed elargire al mondo un sorriso, forse un piccolo efficace segno distintivo che contraddistinguerà il credente nel Padre della vita, nel Signore della storia, nel Dio della Gioia.

domenica 20 maggio 2012

cercatori di senso


Mentre vivo, giorno dopo giorno, ricerco il senso delle cose come della mia esistenza. Non è un dato "per sempre", non è una lezione imparata a memoria come molti, forse da sempre, ci hanno fatto credere. E' più una scommessa, un baluginare davanti agli occhi e nel cuore di un qualcosa che ti sembra possa calmare la tua fame e sete d'assoluto.  E' una ricerca che dura quanto la nostra vita.

Cinque anni fa moriva l'abbè Pierre, cercatore d'infinito.

"Non sono guarito e non guarirò mai da tutto il bagaglio di sofferenze che opprimono l'umanità dalla sua origine.
Di recente ho appreso che sulla terra sarebbero vissuti circa 80 miliardi di esseri umani.

Hanno avuto un'esistenza dolorosa, hanno penato, sofferto.... e per cosa?

Mio Dio perchè?

Nei catechismi di tutte le religioni si dice che la vita ha un significato.  Ma quanti uomini e donne, su decine di miliardi, hanno potuto scoprire tale significato? Quanti hanno potuto prendere coscienza di una vita spirituale e di una speranza? Quanti altri al contrario hanno vissuto come animali, nella paura, schiacciati dagli imperativi della sopravvivenza, nella precarietà, nel dolore della malattia?

E allora mio Dio perchè? Qual è lo scopo della vita?

Tremando, con grande scandalo della mia intelligenza ma con la convinzione del cuore e della fede, io rispondo: lo scopo della vita è di imparare ad amare.

Amare è quando tu, l'altro, sei felice, e allora sono felice anche io.

E quando tu, l'altro, sei infelice e sofferente, allora sono in pena anche io.

E' tutto molto semplice: la vita è un pò di tempo concesso ad alcune libertà, per imparare ad amare."
Abbé Pierre

giovedì 26 aprile 2012

"...per vivere, le religioni devono morire"

Padre Ernesto Balducci. Ho sempre associato il suo nome a quella genia di uomini che hanno saputo, con umiltà e determinazione, pagando spesso di persona, tracciare un cammino di libertà. Di pensiero e di azione. Non soggiacendo al "così fan tutti" o all'accomodante spirito d'obbedienza caro alla gerarchia ecclesiastica. Cerchia di uomini del calibro di don Mazzolari, don Milani, don Mazzi dell'Isolotto, padre Turoldo, Carlo Carretto, padre Franzoni, ...  Insomma una buona compagnia. Eppure... 
...Volgere lo sguardo al tempo andato non serve a far rivivere quel che è stato. Mitigare il bolsume e l'aridità presente, forse. Certo è che il ricordare può risvegliare dal torpore ecclesiale attuale, far rifiorire visioni, rincorrere sogni. Ricordare serve per non disperdere gemme preziose e abbandonarle all'oblio del tempo.
Appena ventanni fa nel giorno della liberazione moriva un piccolo grande uomo. Grande perchè si è fatto piccolo. Un profeta nell'anticipare il futuro, quel che è ora il nostro presente, nei temi e nei moti ora del tutto chiari.

Propongo una riflessione del teologo don Carlo Molari tratto dalla rivista  Confronti del 15 aprile scorso

"Una stagione spirituale non può tornare. Il ricordo però può rendere possibile lo sviluppo del cammino aperto da quella stagione. Per la generazione erede diventa un dovere, per impedire che una storia finisca e per valorizzare un'esistenza fedele. Fare memoria è rinnovare la fiducia e rendere possibile il futuro. Soprattutto quando una vita è troncata in modo drammatico, lascia speranze incompiute e progetti irrealizzati. Ci vogliono persone che raccolgano l'eredità lasciata. E tanto più impellente quanto più la vita troncata è stata profetica: ha anticipato il futuro e ha seminato sogni. Padre Ernesto Balducci ci ha consegnato i suoi progetti che non debbono essere traditi. Voglio ricordare tre momenti della sua profezia: la fine della Chiesa occidentale, il dialogo con le religioni e l'etica dell'uomo planetario. 
La svolta della religione cristiana 
Scriveva Balducci: «L'unica risposta all'altezza del tempo è, per le religioni, il recupero dell'intuizione originaria al di là dei simboli in cui ciascuna di esse si è espressa, al di là del linguaggio culturale in cui si è codificata... Quando i sentieri restano interrotti perché la cultura entra in dissoluzione, il compito di una religione è di reimmergersi in quella intuizione che la fece nascere e riproporla al di fuori di ogni condizionamento, in vista della totalità umana. Liberandosi da una simbologia che appartiene a un'altra età evolutiva, essa dovrà crearsi un nuovo linguaggio simbolico che abbia l'età dell'uomo e sia in grado di additare lo stesso orizzonte di pienezza. Insomma: per vivere, le religioni devono morire» (La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni cultura della pace, Fiesole 1991, pag. 134). Per il cristianesimo ricuperare l'intuizione originaria significa ritrovare l'evento da cui tutto è partito: Gesù crocifisso e risorto. Una fede «che integra in sé il fallimento come proprio modo di essere nel mondo... Non si dà vita morale che non integri in sé la prospettiva del fallimento» (pag. 141). Per la Chiesa «la modernità è come Ur, da cui Abramo dovette partire» (ivi). Ma per non attribuire a padre Balducci una concezione trascendente della fede, quasi che potesse vivere senza simbolismi e strutture, occorre leggere la chiara affermazione conclusiva: «La caduta nella modernità è un destino della fede profetica, così com'è suo destino uscirne fuori, se necessario col sangue. E non c'è caduta che non lasci sopravvivere l'inquieta protesta della profezia, così come non c'è profezia che non debba pagare il suo obolo alla cultura in cui si incarna» (pag. 144).

La fine di cui parla Balducci riguarda la Chiesa teocratica compromessa con il potere, in un passaggio verso forme nuove di compromessi con il potere. Non certo libera dalle strutture e dalle tentazioni del potere. Siamo in un passaggio non verso la liberazione, ma verso una diversa modalità di incarnazione e quindi di compromesso. Il rapporto tra fede e religione è ben posto: «La religione è l'universo simbolico in quanto è immanente a un sistema culturale, la fede è il trascendimento di quell'universo nelle zone silenziose in cui abita il polo assoluto che chiamiamo Dio. La religione scrive il nome di Dio, la fede lo cancella» (pag. 131). Padre Ernesto Balducci ha quindi vissuto il dramma che sorge quando l'istanza profetica entra in conflitto con l'esigenza di una conformità con la cultura (pag. 142). L'esigenza della conformità o meglio di una certa sintonia nasce dalla stessa incarnazione, il modello più comune per leggere l'evento centrale del cristianesimo. Ma anche l'istanza profetica nasce dall'incarnazione per la trascendenza della Parola che attraverso la carne si esprime. Non è possibile risolvere il dilemma in una sintesi, è solamente possibile vivere dialetticamente le due esigenze sottoponendosi all'esodo perenne della storia. 
Dialogo interreligioso 
Negli ultimi anni della sua vita padre Balducci era stato condotto a confrontarsi con le religioni. Era stato il tema della violenza e della pace a trascinarlo in questi temi squisitamente teologici, ma anche sociologici. Ricordo con quale partecipazione interiore mi presentò in un teatro di Firenze nel corso delle conferenze dell'Associazione culturale italiana nella quale trattavo il tema «Religioni e violenza». Questo tema è in pieno sviluppo oggi. Balducci si orienta verso il pluralismo (egli parla di «pluralità», pag. 127), ma non cede al relativismo di Hick. Ad esempio, è vero che egli scrive: «Non ci sono, dunque, religioni false. Ognuna di esse attinge alle risorse dell'uomo nascosto assumendo come centrale una sua possibilità e rendendola praticabile pur dentro i sentieri provvisori di una cultura» (pag. 135). Ma egli aveva già precisato: «L'unificazione tra le religioni non può avvenire, dunque, in forza di una sintesi razionale, che sarebbe come un loro imprigionamento nella mondanità, né in un sincretismo che metta insieme gli elementi comuni per lasciar deperire gli altri.
La pluralità è la condizione normale dell'universalità fino a che non avremo toccato la soglia dell'aldilà e cioè... fino a che non avremo esaurito il diametro della sfera evolutiva» (pag. 129). Mi ha colpito a questo proposito una frase della lettera inviata da Panikkar a Balducci in occasione della sua scomparsa. Mi sembra che Panikkar rimproverasse a Balducci un'eccessiva pretesa razionale nel dialogo interreligioso. «Si realizzò l'incontro di due esseri uniti nel Cristo inedito, che tu volevi comunque "rendere edito", mentre per me andava bene così». D'altra parte Panikkar rimproverava l'eccessiva fiducia razionale dell'occidentale: «L'ultima volta che ci vedemmo, a Città di Castello, penso che tu sorridessi come Machiavelli nell'ascoltare le utopie del Savonarola. Eri molto d'accordo con i miei "sogni idealisti", ma non ci potevi credere. Ormai sono gli occidentali ad essere diventati fatalisti dinanzi all'impatto del potere della scienza moderna e della tecnologia. Tu mi abbracciavi fisicamente e psicologicamente: c'era un posto anche per me nell'uomo planetario — anche se io mi rifiutavo di essere un'entità soltanto storica e quindi intelligibile unicamente da un punto di vista evoluzionistico — magari alla Teilhard». 
L'etica dell'uomo planetario 
Padre Ernesto Balducci aveva il presentimento che stava per nascere l'uomo vero («Che non stia per cominciare la storia dell'uomo veramente uomo?», ivi, pag. 12). Ma anche che ad essa dovesse corrispondere un'etica nuova. In questo l'etica cristiana si presentava passibile di rinnovamenti perché l'etica cristiana non consiste in una serie di comandamenti, bensì nella sequela di una persona. Paolo poteva dire ai Romani: «Trasformatevi continuamente nel rinnovamento della vostra coscienza, in modo che possiate discernere che cosa Dio vuole da voi, cos'è buono, a Lui gradito eperfetto» (Rom 12,2). È questa novità che affascinava Balducci. Come credente egli sapeva che il nuovo è sempre alle porte perché la fonte è inesauribile. Ma, come profondo conoscitore della storia, egli sapeva che l'uomo può impedire il fiorire del nuovo, che anzi la paura lo porta a serrarsi nel suo presente.
Per questo egli chiedeva di reinventare Gesù (La fede dalla fede, Cittadella Assisi 1975, pag. 60). È questa preoccupazione che dobbiamo raccogliere e fare nostra per non dovere sentire dal profondo della nostra pigrizia il lamento di Dio nel profeta Isaia: «Faccio sbocciare una cosa nuova, non v'accorgete?». È un nuovo che richiedecoinvolgimento, decisione, superamento di egoismi. È un inedito, che deve essere inventato. Raccogliere la sua eredità significa anche sviluppare la sua passione, la passione del coinvolgimento nella storia. Prima di tutto la passione del pensiero. Alcune sue opere sono rimaste indicazione di un cammino. Poi la coerenza dell'azione. Aveva la consapevolezza della funzione ecclesiale. Rispondeva ad ogni invito anche nelle piccole comunità, convinto di dover sostenere il cammino di fede di tutti. Avvertiva il peso della testimonianza. Il titolo che aveva dato alla rivista da lui fondata (Testimonianze) esprimeva molto bene l'impostazione della sua vita. Una profezia, la sua, capace di suscitare ancora testimonianze".