giovedì 26 aprile 2012

"...per vivere, le religioni devono morire"

Padre Ernesto Balducci. Ho sempre associato il suo nome a quella genia di uomini che hanno saputo, con umiltà e determinazione, pagando spesso di persona, tracciare un cammino di libertà. Di pensiero e di azione. Non soggiacendo al "così fan tutti" o all'accomodante spirito d'obbedienza caro alla gerarchia ecclesiastica. Cerchia di uomini del calibro di don Mazzolari, don Milani, don Mazzi dell'Isolotto, padre Turoldo, Carlo Carretto, padre Franzoni, ...  Insomma una buona compagnia. Eppure... 
...Volgere lo sguardo al tempo andato non serve a far rivivere quel che è stato. Mitigare il bolsume e l'aridità presente, forse. Certo è che il ricordare può risvegliare dal torpore ecclesiale attuale, far rifiorire visioni, rincorrere sogni. Ricordare serve per non disperdere gemme preziose e abbandonarle all'oblio del tempo.
Appena ventanni fa nel giorno della liberazione moriva un piccolo grande uomo. Grande perchè si è fatto piccolo. Un profeta nell'anticipare il futuro, quel che è ora il nostro presente, nei temi e nei moti ora del tutto chiari.

Propongo una riflessione del teologo don Carlo Molari tratto dalla rivista  Confronti del 15 aprile scorso

"Una stagione spirituale non può tornare. Il ricordo però può rendere possibile lo sviluppo del cammino aperto da quella stagione. Per la generazione erede diventa un dovere, per impedire che una storia finisca e per valorizzare un'esistenza fedele. Fare memoria è rinnovare la fiducia e rendere possibile il futuro. Soprattutto quando una vita è troncata in modo drammatico, lascia speranze incompiute e progetti irrealizzati. Ci vogliono persone che raccolgano l'eredità lasciata. E tanto più impellente quanto più la vita troncata è stata profetica: ha anticipato il futuro e ha seminato sogni. Padre Ernesto Balducci ci ha consegnato i suoi progetti che non debbono essere traditi. Voglio ricordare tre momenti della sua profezia: la fine della Chiesa occidentale, il dialogo con le religioni e l'etica dell'uomo planetario. 
La svolta della religione cristiana 
Scriveva Balducci: «L'unica risposta all'altezza del tempo è, per le religioni, il recupero dell'intuizione originaria al di là dei simboli in cui ciascuna di esse si è espressa, al di là del linguaggio culturale in cui si è codificata... Quando i sentieri restano interrotti perché la cultura entra in dissoluzione, il compito di una religione è di reimmergersi in quella intuizione che la fece nascere e riproporla al di fuori di ogni condizionamento, in vista della totalità umana. Liberandosi da una simbologia che appartiene a un'altra età evolutiva, essa dovrà crearsi un nuovo linguaggio simbolico che abbia l'età dell'uomo e sia in grado di additare lo stesso orizzonte di pienezza. Insomma: per vivere, le religioni devono morire» (La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni cultura della pace, Fiesole 1991, pag. 134). Per il cristianesimo ricuperare l'intuizione originaria significa ritrovare l'evento da cui tutto è partito: Gesù crocifisso e risorto. Una fede «che integra in sé il fallimento come proprio modo di essere nel mondo... Non si dà vita morale che non integri in sé la prospettiva del fallimento» (pag. 141). Per la Chiesa «la modernità è come Ur, da cui Abramo dovette partire» (ivi). Ma per non attribuire a padre Balducci una concezione trascendente della fede, quasi che potesse vivere senza simbolismi e strutture, occorre leggere la chiara affermazione conclusiva: «La caduta nella modernità è un destino della fede profetica, così com'è suo destino uscirne fuori, se necessario col sangue. E non c'è caduta che non lasci sopravvivere l'inquieta protesta della profezia, così come non c'è profezia che non debba pagare il suo obolo alla cultura in cui si incarna» (pag. 144).

La fine di cui parla Balducci riguarda la Chiesa teocratica compromessa con il potere, in un passaggio verso forme nuove di compromessi con il potere. Non certo libera dalle strutture e dalle tentazioni del potere. Siamo in un passaggio non verso la liberazione, ma verso una diversa modalità di incarnazione e quindi di compromesso. Il rapporto tra fede e religione è ben posto: «La religione è l'universo simbolico in quanto è immanente a un sistema culturale, la fede è il trascendimento di quell'universo nelle zone silenziose in cui abita il polo assoluto che chiamiamo Dio. La religione scrive il nome di Dio, la fede lo cancella» (pag. 131). Padre Ernesto Balducci ha quindi vissuto il dramma che sorge quando l'istanza profetica entra in conflitto con l'esigenza di una conformità con la cultura (pag. 142). L'esigenza della conformità o meglio di una certa sintonia nasce dalla stessa incarnazione, il modello più comune per leggere l'evento centrale del cristianesimo. Ma anche l'istanza profetica nasce dall'incarnazione per la trascendenza della Parola che attraverso la carne si esprime. Non è possibile risolvere il dilemma in una sintesi, è solamente possibile vivere dialetticamente le due esigenze sottoponendosi all'esodo perenne della storia. 
Dialogo interreligioso 
Negli ultimi anni della sua vita padre Balducci era stato condotto a confrontarsi con le religioni. Era stato il tema della violenza e della pace a trascinarlo in questi temi squisitamente teologici, ma anche sociologici. Ricordo con quale partecipazione interiore mi presentò in un teatro di Firenze nel corso delle conferenze dell'Associazione culturale italiana nella quale trattavo il tema «Religioni e violenza». Questo tema è in pieno sviluppo oggi. Balducci si orienta verso il pluralismo (egli parla di «pluralità», pag. 127), ma non cede al relativismo di Hick. Ad esempio, è vero che egli scrive: «Non ci sono, dunque, religioni false. Ognuna di esse attinge alle risorse dell'uomo nascosto assumendo come centrale una sua possibilità e rendendola praticabile pur dentro i sentieri provvisori di una cultura» (pag. 135). Ma egli aveva già precisato: «L'unificazione tra le religioni non può avvenire, dunque, in forza di una sintesi razionale, che sarebbe come un loro imprigionamento nella mondanità, né in un sincretismo che metta insieme gli elementi comuni per lasciar deperire gli altri.
La pluralità è la condizione normale dell'universalità fino a che non avremo toccato la soglia dell'aldilà e cioè... fino a che non avremo esaurito il diametro della sfera evolutiva» (pag. 129). Mi ha colpito a questo proposito una frase della lettera inviata da Panikkar a Balducci in occasione della sua scomparsa. Mi sembra che Panikkar rimproverasse a Balducci un'eccessiva pretesa razionale nel dialogo interreligioso. «Si realizzò l'incontro di due esseri uniti nel Cristo inedito, che tu volevi comunque "rendere edito", mentre per me andava bene così». D'altra parte Panikkar rimproverava l'eccessiva fiducia razionale dell'occidentale: «L'ultima volta che ci vedemmo, a Città di Castello, penso che tu sorridessi come Machiavelli nell'ascoltare le utopie del Savonarola. Eri molto d'accordo con i miei "sogni idealisti", ma non ci potevi credere. Ormai sono gli occidentali ad essere diventati fatalisti dinanzi all'impatto del potere della scienza moderna e della tecnologia. Tu mi abbracciavi fisicamente e psicologicamente: c'era un posto anche per me nell'uomo planetario — anche se io mi rifiutavo di essere un'entità soltanto storica e quindi intelligibile unicamente da un punto di vista evoluzionistico — magari alla Teilhard». 
L'etica dell'uomo planetario 
Padre Ernesto Balducci aveva il presentimento che stava per nascere l'uomo vero («Che non stia per cominciare la storia dell'uomo veramente uomo?», ivi, pag. 12). Ma anche che ad essa dovesse corrispondere un'etica nuova. In questo l'etica cristiana si presentava passibile di rinnovamenti perché l'etica cristiana non consiste in una serie di comandamenti, bensì nella sequela di una persona. Paolo poteva dire ai Romani: «Trasformatevi continuamente nel rinnovamento della vostra coscienza, in modo che possiate discernere che cosa Dio vuole da voi, cos'è buono, a Lui gradito eperfetto» (Rom 12,2). È questa novità che affascinava Balducci. Come credente egli sapeva che il nuovo è sempre alle porte perché la fonte è inesauribile. Ma, come profondo conoscitore della storia, egli sapeva che l'uomo può impedire il fiorire del nuovo, che anzi la paura lo porta a serrarsi nel suo presente.
Per questo egli chiedeva di reinventare Gesù (La fede dalla fede, Cittadella Assisi 1975, pag. 60). È questa preoccupazione che dobbiamo raccogliere e fare nostra per non dovere sentire dal profondo della nostra pigrizia il lamento di Dio nel profeta Isaia: «Faccio sbocciare una cosa nuova, non v'accorgete?». È un nuovo che richiedecoinvolgimento, decisione, superamento di egoismi. È un inedito, che deve essere inventato. Raccogliere la sua eredità significa anche sviluppare la sua passione, la passione del coinvolgimento nella storia. Prima di tutto la passione del pensiero. Alcune sue opere sono rimaste indicazione di un cammino. Poi la coerenza dell'azione. Aveva la consapevolezza della funzione ecclesiale. Rispondeva ad ogni invito anche nelle piccole comunità, convinto di dover sostenere il cammino di fede di tutti. Avvertiva il peso della testimonianza. Il titolo che aveva dato alla rivista da lui fondata (Testimonianze) esprimeva molto bene l'impostazione della sua vita. Una profezia, la sua, capace di suscitare ancora testimonianze".

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