venerdì 2 ottobre 2015

La povertà e il Patto delle catacombe



Questo papa è simpatico, avvicina i lontani, suscita emozioni forti. E’ espansivo, affabile, estroverso. In una parola: piace. E se lo si compara ad altri pontefici, vicini e lontani, vince nel confronto. Ha parola che attrae, sorrisi che allargano il cuore. Quindi il sillogismo è scandito in questo modo: papa nuovo, chiesa nuova. E’ quel che si attendono molti.
 Il ritornello è quello di avere una Chiesa più moderna, e ciò, nella maggioranza dei casi, potrebbe tradursi semplicemente nell’invito ad adeguare le scelte e gli insegnamenti cristiani a quel che è il pensare comune.
L’ovvietà del pensiero comune straripa. Da parte mia mi auguro invece che la Chiesa guadagni in autenticità evangelica. In fondo perché la Chiesa non deve adeguarsi a null’altro che non sia il Vangelo di Gesù Cristo.
Bisogna poi ammettere che spesso proprio questa verità viene ingannata nei fatti, sia dalla gerarchia ecclesiastica quanto dal popolo dei fedeli, con parole opere ed omissioni. Con scelte ed atteggiamenti scandalosamente  distanti dall’insegnamento evangelico. Offuscando e allontanando persino quelle voci che, anche all’interno della Chiesa non smettono mai, da secoli, di richiamare alla amorosa fedeltà radicale a Gesù e  alla sua Parola. 
Sono andato a rileggere il cosiddetto Patto delle Catacombe.
Il 16 novembre 1965, durante il Vaticano II, un gruppo di 40 Vescovi di vari continenti si ritrovò nelle Catacombe di Domitilla, una quarantina di km da Roma, per celebrare l’Eucaristia e firmare la fedeltà a un testo dalla grande portata profetica. Lo scritto fu consegnato poi dal Cardinal Lercaro al Papa e sottoscritto in seguito da più di 500 Vescovi. Con questo Patto i firmatari intendevano mettere al centro del loro ministero i poveri, impegnandosi a condurre essi stessi una vita sobria ed essenziale. Il testo nacque sulla spinta iniziale di una dichiarazione di Giovanni XXIII, precedente di un mese all’apertura del Concilio, che invocava la Chiesa come «Chiesa di tutti e in particolare dei poveri». Fu proprio il Cardinal Lercaro, al termine della prima sessione di lavori, a richiamare il tema invitando i confratelli a fare dei poveri il nucleo caldo di tutto il Concilio: «Non renderemo giustizia al nostro compito se non facciamo del mistero di Cristo nei poveri e dell’evangelizzazione dei poveri il centro, l’anima del lavoro dottrinale e legislativo di questo Concilio. Non può essere un tema del Concilio tra gli altri, ma deve diventare la questione centrale. Tema di questo Concilio è la Chiesa in quanto Chiesa dei poveri». Da lì nacque il gruppo dei Vescovi che spinse affinchè il tema dei poveri toccasse molti se non tutti gli ambiti di lavoro del Concilio e che poi diede origine al testo del Patto. Tra questi: Camara, Larrain, Himmer, Hakim e lo stesso Lercaro.   Rimane davvero strano il fatto che una dichiarazione di questa portata, considerato il  numero e lo “spessore”dei firmatari, sia poco conosciuta e confinata tra gli episodi marginali della storia della Chiesa contemporanea.  Sono convinto che la povertà  non sia un consiglio riservato ad alcuni ma un’esigenza evangelica ineludibile per tutti i cristiani. Non credo sia una questione marginale.  E’ evidente che non c’è un unica modalità, una sola interpretazione che  possa normare  le forme storiche della povertà che già nel Nuovo Testamento si presentano molteplici e  diversificate. Però da come viviamo la povertà dipende la forma e lo stile che la Chiesa si dà nella storia per testimoniare, con credibilità, la vicenda di Gesù di Nazareth.
Val la pena far riemergere l’interrogativo su come sia possibile tradurre oggi tutto questo.
E se non basta dire che si fa e si ha tutto “a fin di bene”, forse è il caso – in un confronto ecclesiale
autentico, non paludato e autoreferenziale – elaborare criteri che permettano di custodire, dentro le cose del mondo, la “differenza cristiana”.
Patto delle Catacombe.
Noi vescovi, essendo stati illuminati sulle deficienze della nostra vita per ciò che riguarda la povertà evangelica, incoraggiandoci gli uni gli altri in una medesima iniziativa nella quale ciascuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; uniti a tutti i nostri fratelli nell’episcopato; contando soprattutto sulla forza e la grazia di nostro Signore Gesù Cristo, sulle preghiere dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi; mettendoci, col pensiero e con la preghiera, al cospetto della Trinità, della Chiesa di Cristo, del clero e dei fedeli delle nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza ma anche con tutta la determinazione e la forza della quale siamo sicuri che Dio voglia darci la grazia, ci impegniamo a quel che segue:
1. Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso (Mt 5,3; 6,33.34; 8,20).
2. Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi (queste insegne devono essere di fatto evangeliche, cf. Mc 6,9; Mt 10,9.10; At 3,6).
3. Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale; e se sarà necessario averne, le intesteremo tutte alla diocesi o a opere sociali o caritative (cf. Mt 6,19.21; Lc 12,33.34).
4. Affideremo, ogni volta che sia possibile, la gestione finanziaria e materiale nelle nostre diocesi a un comitato di laici competenti e consapevoli del loro compito apostolico, per poter essere meno degli amministratori che dei pastori e degli apostoli (cf. Mt 10,8; At 6,1-7).
5. Rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza (per esempio: eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiamo essere chiamati con l’appellativo evangelico di «padre».
6. Nel nostro modo di comportarci, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo ciò che può procurarci privilegi, precedenze o anche di dare una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti (per esempio: banchetti offerti o accettati, «classi» nei servizi religiosi ecc.; cf. Lc 14,12.14; 1Cor 9,14.19).
7. Eviteremo anche di incoraggiare o di lusingare la vanità di chiunque con la prospettiva di ricavarne ricompense o regali o per qualunque altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare le loro offerte come una normale partecipazione al culto, all’apostolato e all’azione sociale (cf. Mt 6,2.4; Lc 16,9.13; 2Cor 12,14).
8. Dedicheremo tutto il tempo necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di lavoratori che sono in condizione economica debole o sottosviluppata, senza che questo nuoccia ad altre persone o gruppi della diocesi. Sosterremo i laici religiosi, i diaconi e i preti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai e a condividerne la vita operaia e il lavoro (cf. Lc 4,18; Mc 6,3; Mt 11,4-5; At 18,3.4; 20,33.35; 1Cor 6,12 e 9,1.27).
9. Consapevoli delle esigenze della giustizia e della carità e dei loro mutui rapporti, noi cercheremo di trasformare le opere di beneficenza in opere sociali, basate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze come un umile servizio degli organismi pubblici competenti (cf. Mt 25,31-46; Lc 12,13-14; 18,34).
10. Faremo di tutto perché i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici stabiliscano e applichino leggi sociali e promuovano le strutture sociali necessarie alla giustizia, all’eguaglianza e allo sviluppo armonioso e totale di tutto l’uomo in tutti gli uomini e giungano con questo a stabilire un nuovo ordine sociale degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio (cf. At 2,44.45; 4,32.33.35; 5,4; 2Cor 8,9; 1Tm 5,16).
11. Poiché la collegialità episcopale trova la sua attuazione più evangelica nell’assumersi in comune l’onere delle masse umane in stato di miseria fisica, culturale e morale (due terzi dell’umanità), noi ci impegniamo a partecipare, secondo le nostre possibilità, agli investimenti urgenti degli episcopati poveri; di raggiungere insieme, a livello delle organizzazioni internazionali ma a testimonianza del Vangelo, come il papa all’ONU, lo stabilimento di strutture economiche e culturali che non accrescano il numero delle nazioni prole- tarie in seno a un mondo sempre più ricco, ma permettano alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
12. Ci impegniamo a dividere nella carità pastorale la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, preti, religiosi e laici, perché il nostro ministero sia un vero servizio. Così ci sforzeremo di «rivedere» la nostra vita con il loro aiuto. Prepareremo dei collaboratori per poter maggiormente animare il mondo. Cercheremo di essere più umanamente presenti e accoglienti; ci mostreremo aperti a tutti quale che sia la religione di ciascuno (cf. Mc 8,34.35; At 6,1-7; 1Tm 3,8.10).
13. Ritornati nelle nostre rispettive diocesi, noi faremo conoscere ai nostri diocesani queste nostre decisioni, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere. Che Dio ci aiuti a essere fedeli.