Questo papa è simpatico, avvicina i lontani, suscita
emozioni forti. E’ espansivo, affabile, estroverso. In una parola: piace. E se
lo si compara ad altri pontefici, vicini e lontani, vince nel confronto. Ha
parola che attrae, sorrisi che allargano il cuore. Quindi il sillogismo è
scandito in questo modo: papa nuovo, chiesa nuova. E’ quel che si attendono
molti.
Il ritornello è
quello di avere una Chiesa più moderna, e ciò, nella maggioranza dei casi, potrebbe
tradursi semplicemente nell’invito ad adeguare le scelte e gli insegnamenti
cristiani a quel che è il pensare comune.
L’ovvietà
del pensiero comune straripa. Da parte mia mi auguro invece che la Chiesa
guadagni in autenticità evangelica. In fondo perché la Chiesa non deve
adeguarsi a null’altro che non sia il Vangelo di Gesù Cristo.
Bisogna poi ammettere che spesso proprio questa verità
viene ingannata nei fatti, sia dalla gerarchia ecclesiastica quanto dal popolo
dei fedeli, con parole opere ed omissioni. Con scelte ed atteggiamenti scandalosamente distanti dall’insegnamento evangelico.
Offuscando e allontanando persino quelle voci che, anche all’interno della
Chiesa non smettono mai, da secoli, di richiamare alla amorosa fedeltà radicale
a Gesù e alla sua Parola.
Sono andato a rileggere il cosiddetto Patto delle
Catacombe.
Il 16 novembre 1965, durante il Vaticano II, un gruppo
di 40 Vescovi di vari continenti si ritrovò nelle Catacombe di Domitilla, una
quarantina di km da Roma, per celebrare l’Eucaristia e firmare la fedeltà a un
testo dalla grande portata profetica. Lo scritto fu consegnato poi dal Cardinal
Lercaro al Papa e sottoscritto in seguito da più di 500 Vescovi. Con questo
Patto i firmatari intendevano mettere al centro del loro ministero i poveri,
impegnandosi a condurre essi stessi una vita sobria ed essenziale. Il testo
nacque sulla spinta iniziale di una dichiarazione di Giovanni XXIII, precedente
di un mese all’apertura del Concilio, che invocava la Chiesa come «Chiesa di
tutti e in particolare dei poveri». Fu proprio il Cardinal Lercaro, al termine
della prima sessione di lavori, a richiamare il tema invitando i confratelli a
fare dei poveri il nucleo caldo di tutto il Concilio: «Non renderemo giustizia
al nostro compito se non facciamo del mistero di Cristo nei poveri e
dell’evangelizzazione dei poveri il centro, l’anima del lavoro dottrinale e
legislativo di questo Concilio. Non può essere un tema del Concilio tra gli
altri, ma deve diventare la questione centrale. Tema di questo Concilio è la
Chiesa in quanto Chiesa dei poveri». Da lì nacque il gruppo dei Vescovi che
spinse affinchè il tema dei poveri toccasse molti se non tutti gli ambiti di
lavoro del Concilio e che poi diede origine al testo del Patto. Tra questi:
Camara, Larrain, Himmer, Hakim e lo stesso Lercaro. Rimane davvero strano il fatto che una
dichiarazione di questa portata, considerato il numero e lo “spessore”dei firmatari, sia poco conosciuta
e confinata tra gli episodi marginali della storia della Chiesa contemporanea. Sono convinto che la
povertà non sia un consiglio riservato
ad alcuni ma un’esigenza evangelica ineludibile per tutti i cristiani. Non
credo sia una questione marginale. E’
evidente che non c’è un unica modalità, una sola interpretazione che possa normare le forme storiche della povertà che già nel
Nuovo Testamento si presentano molteplici e diversificate. Però da come viviamo la povertà
dipende la forma e lo stile che la Chiesa si dà nella storia per
testimoniare, con credibilità, la vicenda di Gesù di Nazareth.
Val la
pena far riemergere l’interrogativo su come sia possibile tradurre oggi tutto
questo.
E se non
basta dire che si fa e si ha tutto “a fin di bene”, forse è il caso – in un
confronto ecclesiale
autentico,
non paludato e autoreferenziale – elaborare criteri che permettano di
custodire, dentro le cose del mondo, la “differenza
cristiana”.
Patto delle Catacombe.
Noi vescovi, essendo stati illuminati sulle deficienze
della nostra vita per ciò che riguarda la povertà evangelica, incoraggiandoci
gli uni gli altri in una medesima iniziativa nella quale ciascuno di noi
vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; uniti a tutti i nostri
fratelli nell’episcopato; contando soprattutto sulla forza e la grazia di
nostro Signore Gesù Cristo, sulle preghiere dei fedeli e dei sacerdoti delle
nostre rispettive diocesi; mettendoci, col pensiero e con la preghiera, al
cospetto della Trinità, della Chiesa di Cristo, del clero e dei fedeli delle
nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza ma anche
con tutta la determinazione e la forza della quale siamo sicuri che Dio voglia
darci la grazia, ci impegniamo a quel che segue:
1. Cercheremo di vivere secondo il livello di vita
ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo,
i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso (Mt 5,3; 6,33.34; 8,20).
2. Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà
della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e
nelle insegne di metalli preziosi (queste insegne devono essere di fatto
evangeliche, cf. Mc 6,9; Mt 10,9.10; At 3,6).
3. Non avremo proprietà né di immobili né di beni
mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale; e se sarà
necessario averne, le intesteremo tutte alla diocesi o a opere sociali o
caritative (cf. Mt 6,19.21; Lc 12,33.34).
4. Affideremo, ogni volta che sia possibile, la
gestione finanziaria e materiale nelle nostre diocesi a un comitato di laici
competenti e consapevoli del loro compito apostolico, per poter essere meno
degli amministratori che dei pastori e degli apostoli (cf. Mt 10,8; At 6,1-7).
5. Rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per
iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza
(per esempio: eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiamo essere chiamati con
l’appellativo evangelico di «padre».
6. Nel nostro modo di comportarci, nelle nostre
relazioni sociali, eviteremo ciò che può procurarci privilegi, precedenze o
anche di dare una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti (per esempio:
banchetti offerti o accettati, «classi» nei servizi religiosi ecc.; cf. Lc
14,12.14; 1Cor 9,14.19).
7. Eviteremo anche di incoraggiare o di lusingare la
vanità di chiunque con la prospettiva di ricavarne ricompense o regali o per
qualunque altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare le loro
offerte come una normale partecipazione al culto, all’apostolato e all’azione
sociale (cf. Mt 6,2.4; Lc 16,9.13; 2Cor 12,14).
8. Dedicheremo tutto il tempo necessario al servizio
apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di lavoratori che sono in
condizione economica debole o sottosviluppata, senza che questo nuoccia ad
altre persone o gruppi della diocesi. Sosterremo i laici religiosi, i diaconi e
i preti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai e a
condividerne la vita operaia e il lavoro (cf. Lc 4,18; Mc 6,3; Mt 11,4-5; At
18,3.4; 20,33.35; 1Cor 6,12 e 9,1.27).
9. Consapevoli delle esigenze della giustizia e della
carità e dei loro mutui rapporti, noi cercheremo di trasformare le opere di
beneficenza in opere sociali, basate sulla carità e sulla giustizia, che
tengano conto di tutti e di tutte le esigenze come un umile servizio degli
organismi pubblici competenti (cf. Mt 25,31-46; Lc 12,13-14; 18,34).
10. Faremo di tutto perché i responsabili del nostro
governo e dei nostri servizi pubblici stabiliscano e applichino leggi sociali e
promuovano le strutture sociali necessarie alla giustizia, all’eguaglianza e
allo sviluppo armonioso e totale di tutto l’uomo in tutti gli uomini e giungano
con questo a stabilire un nuovo ordine sociale degno dei figli dell’uomo e dei
figli di Dio (cf. At 2,44.45; 4,32.33.35; 5,4; 2Cor 8,9; 1Tm 5,16).
11. Poiché la collegialità episcopale trova la sua
attuazione più evangelica nell’assumersi in comune l’onere delle masse umane in
stato di miseria fisica, culturale e morale (due terzi dell’umanità), noi ci
impegniamo a partecipare, secondo le nostre possibilità, agli investimenti
urgenti degli episcopati poveri; di raggiungere insieme, a livello delle
organizzazioni internazionali ma a testimonianza del Vangelo, come il papa
all’ONU, lo stabilimento di strutture economiche e culturali che non accrescano
il numero delle nazioni prole- tarie in seno a un mondo sempre più ricco, ma
permettano alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
12. Ci impegniamo a dividere nella carità pastorale la
nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, preti, religiosi e laici, perché
il nostro ministero sia un vero servizio. Così ci sforzeremo di «rivedere» la
nostra vita con il loro aiuto. Prepareremo dei collaboratori per poter
maggiormente animare il mondo. Cercheremo di essere più umanamente presenti e
accoglienti; ci mostreremo aperti a tutti quale che sia la religione di ciascuno
(cf. Mc 8,34.35; At 6,1-7; 1Tm 3,8.10).
13. Ritornati nelle nostre rispettive diocesi, noi
faremo conoscere ai nostri diocesani queste nostre decisioni, pregandoli di
aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere. Che Dio
ci aiuti a essere fedeli.