giovedì 29 settembre 2011

Un “villaggio” da ricostruire

                           
La crisi che sta infiammando le borse del pianeta e avviluppa ogni stato mettendo in ginocchio l’economia reale, non può che coinvolgere ogni strato sociale, individui e famiglie.
Troppo facile presentarsi come profeta di sventura del tipo “ve l’avevo detto” oppure “era questione di tempo”. Troppo facile oggi presentarsi come i garanti del (bel ?) sistema in crisi.
Ho un altro passo, parto da altri presupposti. Validi alla stessa stregua di ogni altro presupposto; alieno da dogmatismi (di stampo economicistico quanto di vera o presunta morale oggettiva). Il presupposto da cui avanzo implica un atteggiamento di fede ricercata, non tesaurizzata a priori, corroborata da una ragionevolezza di fronte alla realtà. Inevitabile allora  talune domande che, detto tra noi in confidenza, mi pare siano desuete. Domande forti e proprio per questo, in un tempo debole o di “passioni tristi” fuori luogo perché scomode. Tanto più fastidiose quanto più reclamano risposte pratiche, individuali e familiari, messe in comune e socializzate; risposte che, mi pare, siano cartine di tornasole di una vita (di fede, da uomini giusti) semplice, non dissociata, integrale. La considerazione di partenza è una constatazione che in ogni frangente è possibile cogliere. Stiamo vivendo tutti al di sopra delle nostre reali possibilità. Lo constato andando a far la spesa, accompagnando mio figlio alla scuola; lo constato lungo la strada; nel mio ufficio di Patronato e di Assistenza fiscale.
Per emulare, per farsi invidiare, per apparire, per competere, per mascherare voragini esistenziali e fragilità. Senza pensiero aggiuntivo, senza possibilità di una pacata riflessione. Eppure non mi basta la prassi comune, il rito quotidiano, non mi contento del così fan tutti; non posso tacere domande anche semplici .  Mi rifiuto di entrare in un bar (uno qualunque dal più lussuoso allo sgangherato), trangugiare velocemente al bancone e pagare una tazzina di caffè novanta centesimi o un euro. E’ stupido, è un insulto all’intelligenza. Lo considero un ladrocinio tollerato e accettato. Quanti grammi sono? E’ poi così necessario? Non è possibile berselo a casa, utilizzare una cialda in ufficio (ventisette/trenta centesimi)? Trenta euro al mese sembrano pochi?  Trecentosessanta euro all’anno anche? Cosa ne dite di chi al bar fa la colazione?  Mamma/papà  e figlio quotidianamente colazione al bar sotto casa. Tre brioches e tre cappucci mettiamo 4/cinque euro? Millequattrocentosessanta/milleottocento euro son pochi all’anno? Sino alle scarpe per il bimbo, naturalmente griffate, naturalmente pagate cento/duecento euro. L’auto di grossa cilindrata per ostentare la potenza,…Vacanze, ristoranti, long drink,… Soggiogati dalla cultura del consumo valiamo/diamo peso all’acquisto, al quanto; siamo intrappolati e apparentemente felici in questa logica. Persino il sottofondo musicale nei centri commerciali e negli iper rende leggera la nostra spesa, inebetendoci nel vortice. Da famiglia operaia mi chiedo ancora che fine abbiano fatto le “schiscette” con un pranzo che sapeva di “casa”, con un occhio alla genuinità e un altro al risparmio. Dove sono finite l’attenzione a non sperperare, la sobrietà, quell’oculatezza quasi spartana nel quotidiano? Và forte oggi il “mangiare” al bar, spendi per cibi finti o quasi finti. Forse non ci si rende neanche conto. Viviamo nel big happy business.  Mi pongo allora una semplice domanda: a quanto siamo disposti a rinunciare? Mi spingo a ritenere che la moderazione, uno stile di vita semplice, austero che vada alla ricerca di formule di vita condivise, che si interroghi costantemente sul perché delle cose ricercandone il senso, sia consono al cammino di fede di uomini e donne che, chiamati alla libertà, non si lascino sopraffare.  E un’ultima domanda che suona retorica ma non lo è: Quanto siamo aiutati dal nostro “villaggio”, dalla nostra comunità, dalla nostra chiesa, dalla nostra famiglia a sperimentare un modello di vita più semplice ed insieme più umano, più giusto e più fraterno? Questa storia è un augurio per trovare e fare il “nostro” villaggio.


   In un villaggio una donna ebbe la sorpresa di trovare sulla soglia di casa uno straniero piuttosto ben vestito che le chiese qualcosa da mangiare.
<< Mi dispiace >>, ella rispose, <<al momento non ho in casa niente>>.
<< Non si preoccupi >>, replicò lo sconosciuto amabilmente. << Ho nella bisaccia un sasso per minestra: se mi darete il permesso di metterlo in una pentola di acqua bollente, preparerò la zuppa più deliziosa del mondo. Mi occorre una pentola molto grande, per favore >>.
La donna era incuriosita. Mise la pentola sul fuoco e andò a confidare il segreto del sasso per la minestra a una vicina di casa.
Quando l’acqua cominciò a bollire, c’erano tutti i vicini, accorsi a vedere lo straniero e il sasso. Egli depose il sasso nell’acqua, poi ne assaggiò un cucchiaino ed esclamò con aria beata: << Ah, che delizia! Mancano solo le patate >>.
<< Io ho delle patate in cucina >>, esclamò una donna.
Pochi minuti dopo era di ritorno con una grande quantità di patate tagliate a fette, che furono gettate nel pentolone.
Allora lo straniero assaggiò di nuovo il brodo.
<<Eccellente>>, gridò. Poi però aggiunse con aria malinconica:
<<Se solo avessimo un po’ di carne diventerebbe uno squisito stufato>>.
Un’altra massaia corse a casa per andare a prendere la carne, che l’uomo accettò con garbo e gettò nella pentola.
Al nuovo assaggio, egli alzò gli occhi al cielo e disse: << Ah, manca solo un po’ di verdura e poi sarebbe perfetto, veramente perfetto! >>.
Una delle vicine corse a casa e tornò con un cesto pieno di carote e cipolle. Dopo aver messo queste nella zuppa, lo straniero assaggiò il miscuglio e dichiarò in tono imperioso: << Sale e salsa >>. << Eccoli >>, disse la padrona di casa. Poi un altro ordine: << Scodelle per tutti >>.
La gente corse a casa a prendere le scodelle. Qualcuno portò anche pane e frutta.
Poi si sedettero tutti a tavola, mentre lo straniero distribuiva grosse porzioni della sua incredibile zuppa.
Tutti provavano una strana felicità, ridevano, chiacchieravano e gustavano il loro primo vero pasto in comune.
In mezzo all’allegria generale, lo straniero scivolò fuori silenziosamente, lasciando il sasso miracoloso affinché potessero usarlo tutte le volte che volevano per preparare la minestra più buona del mondo.
                   

lunedì 12 settembre 2011

Che vinca la vita

 
Non escludo che si siano levate voci, di cardinali o vescovi, relative alla manovra finanziaria. 
Mi sono sfuggite. Lo dico senza carica polemica: non può essere che siano state dette senza nulla scuotere?  quasi sottovoce?
Non può essere che talune cose vadano dette e gridate dai tetti? 




"... meraviglia molto il silenzio dei nostri vescovi, delle nostre comunità cristiane, dei nostri cristiani impegnati in politica"  p. A.Zanotelli







Manovra e armi: "Il male oscuro"
di Alex Zanotelli
In tutta la discussione nazionale in atto sulla manovra finanziaria, che ci costerà 20 miliardi di euro nel 2012 e 25 miliardi nel 2013, quello che più mi lascia esterrefatto è il totale silenzio di destra e sinistra, dei media e dei vescovi italiani sul nostro bilancio della Difesa. E’ mai possibile che in questo paese nel 2010 abbiamo speso per la difesa ben 27 miliardi di euro? Sono dati ufficiali questi, rilasciati lo scorso maggio dall’autorevole Istituto Internazionale con sede a Stoccolma(SIPRI). Se avessimo un orologio tarato su questi dati, vedremmo che in Italia spendiamo oltre 50.000 euro al minuto, 3 milioni all’ora e 76 milioni al giorno. Ma neanche se fossimo invasi dagli UFO, spenderemmo tanti soldi a difenderci!!
E’ mai possibile che a nessun politico sia venuto in mente di tagliare queste assurde spese militari per ottenere i fondi necessari per la manovra invece di farli pagare ai cittadini? Ma ai 27 miliardi del Bilancio Difesa 2010, dobbiamo aggiungere la decisione del governo, approvata dal Parlamento, di spendere nei prossimi anni, altri 17 miliardi di euro per acquistare i 131 cacciabombardieri F 35. Se sommiamo questi soldi, vediamo che corrispondono alla manovra del 2012 e 2013. Potremmo recuperare buona parte dei soldi per la manovra, semplicemente tagliando le spese militari. A questo dovrebbe spingerci la nostra Costituzione che afferma :”L’Italia ripudia la guerra come strumento per risolvere le controversie internazionali…”(art.11) Ed invece siamo coinvolti in ben due guerre di aggressione, in Afghanistan e in Libia. La guerra in Iraq (con la partecipazione anche dell’Italia), le guerre in Afghanistan e in Libia fanno parte delle cosiddette “ guerre al terrorismo”, costate solo agli USA oltre 4.000 miliardi di dollari (dati dell’Istituto di Studi Internazionali della Brown University di New York). Questi soldi sono stati presi in buona parte in prestito da banche o da organismi internazionali. Il governo USA ha dovuto sborsare 200 miliardi di dollari in dieci anni per pagare gli interessi di quel prestito. Non potrebbe essere, forse, anche questo alla base del crollo delle borse? La corsa alle armi è insostenibile, oltre che essere un investimento in morte: le armi uccidono soprattutto civili.
Per questo mi meraviglia molto il silenzio dei nostri vescovi, delle nostre comunità cristiane, dei nostri cristiani impegnati in politica. Il Vangelo di Gesù è la buona novella della pace: è Gesù che ha inventato la via della nonviolenza attiva. Oggi nessuna guerra è giusta ,né in Iraq, né in Afghanistan, né in Libia. E le folle somme spese in armi sono pane tolto ai poveri, amava dire Paolo VI. E da cristiani come possiamo accettare che il governo italiano spenda 27 miliardi di euro in armi, mentre taglia 8 miliardi alla scuola e ai servizi sociali?
Ma perché i nostri pastori non alzano la voce e non gridano che questa è la strada verso la morte?
E come cittadini in questo momento di crisi, perché non gridiamo che non possiamo accettare una guerra in Afghanistan che ci costa 2 milioni di euro al giorno? Perché non ci facciamo vivi con i nostri parlamentari perché votino contro queste missioni? La guerra in Libia ci è costata 700 milioni di euro!
Come cittadini vogliamo sapere che tipo di pressione fanno le industrie militari sul Parlamento per ottenere commesse di armi e di sistemi d’armi. Noi vogliamo sapere quanto lucrano su queste guerre aziende come la Fin-Meccanica, l’Iveco-Fiat, la Oto-Melara, l’Alenia Aeronautica. Ma anche quanto lucrano la banche in tutto questo.
E come cittadini chiediamo di sapere quanto va in tangenti ai partiti, al governo sulla vendita di armi all’estero (Ricordiamo che nel 2009 abbiamo esportato armi per un valore di quasi 5 miliardi di euro).
E’ un autunno drammatico questo, carico di gravi domande. Il 25 settembre abbiamo la 50° Marcia Perugia-Assisi iniziata da Aldo Capitini per promuovere la nonviolenza attiva. Come la celebreremo? Deve essere una marcia che contesta un’Italia che spende 27 miliardi di euro per la Difesa.
E il 27 ottobre sempre ad Assisi , la città di S. Francesco, uomo di pace, si ritroveranno insieme al Papa, i leader delle grandi religioni del mondo. Ci aspettiamo un grido forte di condanna di tutte le guerre e un invito al disarmo.
Mettiamo da parte le nostre divisioni, ricompattiamoci, scendiamo per strada per urlare il nostro no alle spese militari, agli enormi investimenti in armi, in morte.
Che vinca la Vita!
Alex Zanotelli
Napoli, 24 agosto 2011


 

giovedì 8 settembre 2011

Nelle mani di un Altro

Una struttura ultra moderna; l'inaugurazione solo alcuni mesi fa.  Tutto perfetto: un ospedale a pochi chilometri da Milano, super e mega.
Un day hospital programmato da un mese per un'asportazione di un rinofima.
Ho tolto i miei vestiti e ho indossato una camicia lunga e larga coi lacci posteriori, un braccialettino di plastica col nome, cognome data di nascita e un codice a barre.
Ho tolto catenina e fede nuziale. Poi mi sono coricato in un letto intonso e lindo e lì sono rimasto in attesa.
All'ospedale si attende ogni cosa. Il colloquio anamnestico col medico, la flebo, la misurazione della pressione, la visita preoperatoria, una blanda preanestesia, la sedia a rotelle che ti porta all'ingresso della sala operatoria.  Il mio tempo l'ho messo nelle mani di altri.
Di tanto in tanto accarezzo l'idea del mettere nelle mani di un altro (Altro) il mio (?) tempo.
Osservo mio figlio;  lui forse non si affida in tutto e per tutto?Non si consegna al papà e alla mamma (forse non potendo fare altro che) fidandosi?
L’invito allora è quello di renderci conto che la nostra vita si basa sempre su un atto di fiducia.  L'appello è di rendere consapevole e "terapeutico" l'elemento fiducia nel nostro vivere. Forse dobbiamo conquistarcela, elemosinarla e concederla!
Fidiamoci di più di noi stessi, dei nostri sogni; fidiamoci di più del bimbo che piange e dell’adolescente che ride, dell’istinto spesso arrugginito e delle persone che amiamo. Fidiamoci di più della naturalezza della vita, del tempo che passa e lascia segni e rughe! Fidiamoci di più di Dio in qualunque modo lo intendiamo.
Penso che alla fine ne avremmo un guadagno.
E se qualcuno o qualcosa non si dimostra degno di fiducia? Allora bé ci dispiacerà molto, ma se abbiamo fatto tutto quello che stava in noi fare manterremo comunque quello sguardo benevolo e accogliente.

La fine del mondo è quando si cessa di aver fiducia” (Madeleine Ouellette Michalska)

mercoledì 7 settembre 2011

bisogna giocare (vivere) con un po' di dignità

Simone Pianigiani, il commissario tecnico della nazionale di basket, sotto di 21 punti contro la squadra di Israele, in un time out nella partita, si sfoga urlando tutta la sua delusione ai suoi giocatori:  
"Bisogna giocare con un po' di dignità...bisogna metterci un po' di anima...czz...facciamo a cazzotti almeno...ma che czz avete dentro?"
Il clip di questa  intensa rabbia è tra i più cliccati in rete.
C'è passione, amore, rabbia; c'è vita, un desiderio travolgente di riscatto.
Già: che czz avete/abbiamo dentro? quanta passione c'è nel nostro gioco/vita/destino? quanto siamo disposti a mettere in campo?  quanto siam disposti a perdere? Siamo tutti debosciati? Tutti esseri amebici perenni? Svalvolati tecnologici rimbabiti bamboccioni smidollati? Siamo davvero lo specchio fedele e degenerato di una classe dirigente pusillanime e indecente? Siamo davvero vivi ma senza dignità? Quanta anima mettiamo nel nostro impegno (di vita, d'amore, di fede, di cittadinanza, di politica)? Almeno facciamo a cazzotti con la nostra inerzia, reagiamo sputando in faccia a quella fiacchezza spirituale che tutto affloscia.
Se non altro tentiamo, potremo forse dire di avere vissuto; czz!

martedì 6 settembre 2011

meno parole, più Vangelo

"..Ma il vescovo deve avere il coraggio e la libertà di dire quel che pensa sia giusto, quel che dice il Vangelo, senza temere le critiche...Oggi più che mai abbiamo bisogno di una Chiesa radicata in Cristo, che metta lui e non l’organizzazione o il successo mondano al centro".

In fondo come cristiani non abbiamo espresso sempre al meglio quel coraggio e quella libertà avuti in dono dalla nostra fede. E' assai più rassicurante non contrastare nessuno, fare come fan tutti.   Anche tra di noi, nella nostra Chiesa, è sempre bene essere prudenti, scambiando la prudenza per l'ignavia, la ponderatezza e la cautela con il silenzio che celano, a volte, la paura di  ritorsioni.   E poi quanto con il nostro silenzio complice, i nostri occhi chiusi e le nostre labbra sigillate o balbettanti suoni impercettibili hanno tollerato ogni cosa , fino a rendere inumano il vivere?        Ci sarebbe allora bisogno di una Chiesa, autocentrata e autoreferenziale sradicata da Cristo, che non guardasse altro che al proprio successo?...
 
Sono queste le riflessioni che mi hanno suscitato le parole del cardinal Tettamanzi il quale,  nel lasciare Milano e cedere il posto al cardinale Angelo Scola (il prossimo 25 settembre)   nell'intervista a Famiglia Cristiana,  offre un bilancio dei suoi nove anni alla guida della cattedra di san Carlo Borromeo.


Tettamanzi: meno parole, più Vangelo

Dopo nove anni alla guida della diocesi milanese, un bilancio della sua esperienza. Vescovo scomodo? «Ho cercato di fare della Parola del Signore la bussola del mio episcopato».

Eminenza, com’è cambiata Milano?
«Inizierei da ciò che non è cambiato. A Milano ho trovato una Chiesa forte, una tradizione viva, ricca di fede e di umanità. Ho trovato in città una marcata propensione al dialogo, un’apertura mentale, culturale e spirituale che alcuni venti avversi, spirati violentemente in questi anni, non sono riusciti a sradicare. Tanti i cambiamenti, invece, ma da leggere in modo accorto: il progressivo impoverimento economico delle famiglie, ma al tempo stesso l’aumento della pratica della solidarietà; la crescente disaffezione verso la politica e l’aumentata voglia di “dire la propria” sulla città; il peggioramento di alcune prospettive di stabilità per il lavoro dei giovani ma, insieme, le accresciute opportunità formative e culturali; l’aumento del numero degli immigrati e la crescente incapacità a farli sentire protagonisti della società; l’aumento della ricchezza per pochi, l’indebitamento crescente per molti. Dimenticavo un’altra cosa che non è cambiata: gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre d’attualità».

E il Paese come è cambiato visto dall’osservatorio di Milano?
«Tante le urgenze sociali che attendono cura e dedizione. E già questo temo sia un segnale di scadimento della qualità della vita della nostra nazione, che però nulla ha perso del suo orgoglio, della sua speranza, delle sue potenzialità. Chi ha responsabilità sociali pubbliche deve lavorare per il benessere comunitario. Non si può pensare di poter tutelare “qualcuno” dimenticando “altri”, nemmeno – e mi spingo quasi al paradosso – difendere i diritti dei più “deboli” a danno dei più “forti”. I deboli vanno tutelati certo, ma non con continui e straordinari atti di assistenzialismo. Devono essere tutelati dallo svolgersi ordinario della vita sociale perché ritenuti parte preziosa, importante, necessaria alla vita del Paese».

Chi sono i deboli oggi?
«Gli immigrati, gli anziani, chi fatica ad avere le risorse economiche. Ma i più deboli oggi sono purtroppo i giovani, preoccupati per la mancanza di prospettive serie di lavoro, di famiglia, di stabilità, di spazi di giusto protagonismo, di modelli di vita, di opportunità dove misurarsi e mettersi alla prova: insomma, poveri di futuro. In questo, il Paese purtroppo è peggiorato. Chi governa dovrebbe avere il coraggio e la determinazione di impostare le manovre economiche assicurando una vera speranza ai giovani, all’infanzia, alla scuola. Se vogliamo che il futuro del Paese sia migliore, è qui che occorre indirizzare le energie».

A Milano abitano 400 mila musulmani, ma la città si oppone alla costruzione di una moschea. È stato difficile per lei in questi anni predicare una civiltà multietnica?
«La nostra società fa ancora fatica a confrontarsi veramente con l’immigrazione, che, se per alcuni può essere un problema, per tutti dovrebbe essere, invece, un’opportunità. È all’immigrazione che Milano deve non poco della sua fortuna: questa città è frutto di ripetuti e successivi processi di integrazione. È una memoria da recuperare. Sicuramente occorre intervenire per regolare doverosamente il fenomeno migratorio, garantendo la legalità, attivandosi di concerto con le altre nazioni. Ed è indubitabile che anche la Chiesa debba fare la propria parte. Purtroppo, invece, spesso accade che a prevalere sia la paura dell’altro».
Come già accennava, si ripropone una “questione morale” ancora una volta a Milano (caso Penati): lei, il vescovo di Milano, quali riflessioni ha fatto sulla politica e l’economia e gli intrecci poco virtuosi, che portano alla corruzione, spesso reciproca, denunciata anche recentemente da papa Benedetto XVI?
«Ogni giorno, leggendo i giornali, si è portati a pensare che si stia sprofondando sempre più in basso. L’immoralità è dilagante, a tutti i livelli della società, e pare che al peggio non ci sia più limite, che la catastrofe sia alle porte. Dovremmo però purificare lo sguardo, magari aiutati da mezzi di comunicazione più coraggiosi. Molti sono corrotti, ma non mancano gli amministratori onesti. Penso ai tanti sindaci, amministratori locali, consiglieri provinciali o regionali, parlamentari che incontro e che mi testimoniano la loro passione per il bene comune, quasi consumati dalla voglia sincera di servire e migliorare il proprio Comune, il territorio, il Paese. Non dimentichiamoci di loro, così come di chi continua con dedizione a far “funzionare” il Paese, a garantire i servizi supplendo alle negligenze di chi ha maggiori responsabilità. Prima di accusare l’immoralità degli altri, ciascuno verifichi sé stesso, i piccoli gesti quotidiani, sia fedele nelle proprie piccole e grandi responsabilità».
La crisi e le famiglie: lei ha costituito il Fondo di solidarietà, poi molti, anche la Cei, hanno copiato l’idea. Cosa è stato fatto?
«È stato fatto moltissimo grazie alla generosità di tante persone, dei privati, dei gruppi. Ma ancora molto rimane da fare. Il Fondo Famiglia Lavoro è stato un gesto straordinario nei risultati ottenuti, nel tipo di proposta. Tanta solidarietà si è attivata, spesso anche da dove non ci si aspettava. Quella che non vedo ancora compiuta è la conversione degli “stili di vita”, che devono essere fortemente segnati dalla sobrietà e dall’essenzialità».

Milano è la città da dove sono venute persone che hanno cambiato l’Italia. Forse insistendo troppo sui personalismi: da Craxi a Berlusconi, a Bossi. Milano è anche diventata la città di Tettamanzi, il vescovo che si è “opposto”, un vescovo sgradito e per alcuni un vescovo con un ruolo “innaturale”. Lei che idea si è fatto del ruolo di un vescovo a Milano?

«Milano è una città dove l’impronta cristiana è forte. Guidare la Chiesa ambrosiana, in un territorio complesso come quello di Milano, è un peso e una grande responsabilità, ma è anche un’esperienza di singolare arricchimento. Come vescovo a Milano ho cercato di servire il Vangelo e di fare della Parola del Signore la bussola e la guida del mio episcopato. Ci sono stati momenti di difficoltà, fatiche anche. Ma il vescovo deve avere il coraggio e la libertà di dire quel che pensa sia giusto, quel che dice il Vangelo, senza temere le critiche».
Da Ancona alla segreteria della Cei, e poi a Genova e a Milano, lei ha avuto molte responsabilità. Qual è lo “stato di salute” della comunità ecclesiale italiana?
«La Chiesa è in salute sempre, perché lo Spirito di Cristo la sostiene, ma al tempo stesso sperimenta non poche fatiche nella storia, anche per mancanze proprie. La Chiesa è “santa”, immacolata, essendo la Sposa del Signore, pur sperimentando le macchie del peccato dei suoi membri. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una Chiesa radicata in Cristo, che metta lui e non l’organizzazione o il successo mondano al centro».

Sembra che il semplice annuncio del Vangelo sia tuttora dirompente, in una società come la nostra. A suo parere, da che cosa è motivato questo eterno “scandalo” rappresentato dal cristianesimo?

«Sulla Parola di Dio, che è una promessa, si fonda l’amore. La nostra società vive di parole, troppe e spesso inutili parole. Ecco, forse da qui, dall’osservazione della realtà, bisogna partire per rispondere alla vostra domanda: travolti dalle parole – vuote, inefficaci, convenzionali, inaffidabili – la donna e l’uomo di oggi sperimentano l’insopprimibile bisogno di una parola affidabile, carica di senso, che compia quanto promette, che dischiuda l’orizzonte e mostri il futuro. E la Parola di Dio, se adeguatamente annunciata e udita, ha questa forza sempre nuova, dirompente, che a volte scandalizza, ed è capace di attrarre e affascinare l’uomo contemporaneo».



 

venerdì 2 settembre 2011

Non si può far tacere per sempre il Vangelo

In una stagione, ecclesialmente parlando, un po' bolsa ci si chiede che cosa rimane di un tempo, appena qualche decennio fa, così carico di attese e di speranze. Che cosa rimane di un desiderio palpabile di rinnovamento, di approfondimento, di partecipazione? Che cosa resta di quel fuoco acceso che ha incendiato il cattolicesimo  nel Concilio Vaticano Secondo? Non voglio abbandonarmi allo smorzamento dell'anima, resisto rimanendo ancora sveglio e fiducioso. Sotto la cenere colgo impercettibili scintille. Occorre però che si mettano insieme, in rete e che q(Q)ualcuno soffi per accendere ancora segnali di vita.

Pungolano le parole di Enzo Bianchi, priore di Bose, (forse una delle poche voci che ascoltandole riescono a scaldare il cuore  offrendo semi di speranza):
"Mi ostino a credere che alla brace del Vangelo basti il soffio dello Spirito per riprendere ad ardere, riscaldando i nostri cuori e illuminando l’umanità intera"

Propongo la lettura dell'articolo tratta dalla rubrica  dal priore curata sul mensile Jesus di settembre.

È possibile vivere il Vangelo?
“È possibile vivere il Vangelo?”. Chi come me ha una certa età, avendo ormai attraversato le varie stagioni della vita ed essendo approdato all’ultima, riconosce che questa domanda ha ricevuto e continua a ricevere risposte diverse.
C’è stata una stagione, che per la mia generazione è coincisa con la giovinezza, in cui le attese, le speranze, le forti convinzioni tipiche del tempo in cui i giovani si affacciano alla vita e vi entrano, erano convergenti con le speranze della chiesa e del mondo. Erano gli anni del disgelo tra l’occidente e l’oriente comunista, gli anni in cui si riprendeva un dialogo interrotto da tempo, e la primavera sembrava essere la metafora più appropriata per definire quell’epoca in cui molte realtà sembravano germogliare e alcune sbocciare. Questo avveniva anche nella chiesa: un papa che appariva innanzitutto come un cristiano; un concilio da lui voluto in cui ci si ascoltava, ci si confrontava anche aspramente ma con la passione della fedeltà al Signore; un dibattito tra singoli cristiani e tra comunità cristiane che avvertivano nel loro quotidiano il bisogno di mutamento, di rinnovamento, potremmo anche dire di conversione. Si respirava nell’aria una novità che non era l’arrivo di una “moda”, ma era un ritorno al Vangelo, alla forma vitae della chiesa primitiva.
Per questo si parlava, con molto timore, anche di aggiornamento, qualcuno ardiva persino parlare di riforma della vita della chiesa. Per i cristiani con una certa consapevolezza era il Vangelo che diventava una presenza dinamica, un riferimento, un principio che veniva invocato come un’urgenza, una realtà da viversi concretamente e, oserei dire, visibilmente: questo non per “un’ostensione davanti agli uomini” ma per verificare che il Vangelo ispirava veramente la vita di molti cristiani ed era assunto dalla chiesa come presenza egemone. In questo cammino si coniavano parole ed espressioni nuove: ritorno alle fonti, riscoperta della chiesa dei padri, ispirazione alla comunità apostolica, autorevolezza della chiesa indivisa…
 
Qualcuno oggi, analizzando quella stagione, conclude che nella chiesa si era instaurato un mito – il mito di un’età dell’oro, il mito delle origini – e che questo era dovuto soprattutto a Erasmo da Rotterdam, il quale agli inizi del XVI secolo plasmò un certo vocabolario e una certa filosofia della riforma ecclesiale. In verità chi conosce più in profondità la storia della chiesa sa che nella vicenda stessa del cristianesimo è insita questa nostalgia degli inizi. Anzi, potremmo dire che già nell’Antico Testamento i profeti, a partire da Osea, ricordavano al popolo del Signore il bisogno di ritornare ai tempi del fidanzamento, ai tempi del deserto, contrassegnati dalla fedeltà e dall’amore (cf. Os 2,16-25): quell’amore che sa cantare la convinzione forte e la grande speranza in cui sembra non apparire la stanchezza e non esserci posto per la frustrazione, la delusione, il misurare la propria debolezza. Quando, di fronte alla chiesa costantiniana sorta nel IV secolo, avvenne la protesta del monachesimo e la sua fuga nel deserto, i padri monastici chiesero di tornare alla koinonía, alla comunità descritta da Luca nei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli (cf. At 2,42-47; 4,32-35). Ritorno alle fonti, quindi. In seguito ogni tradizione attingerà sempre a quella forma della chiesa primitiva: questo avverrà per i vari tentativi di riforma, da quello di Cluny a quello di Bernardo di Clairvaux, ai movimenti mendicanti e anche a quelli ereticali, tutti tesi a riprendere la prassi di chi “nudo segue il Cristo nudo”.
 
Mito della riforma? O non piuttosto capacità del Vangelo di essere un fuoco che continua a covare sotto la cenere, che resta brace incandescente la quale può sempre dare origine a un roveto ardente? “Il Vangelo è dýnamis, potenza di Dio” (Rm 1,16), dice l’apostolo Paolo! Può essere smentito, fatto tacere, reso inefficace, può essere addirittura contraddetto e pervertito, e allora sembra restare inerte sotto la cenere. Ma poi riprende ad ardere, perché è un fuoco che subito rinasce non appena un cristiano getta sulla cenere qualche sterpo del suo vivere, alla ricerca della luce e della presenza divina. Non si può far tacere per sempre il Vangelo: per qualche tempo sì, e la storia della chiesa lo testimonia; ma poi basta che un uomo o una donna, alla ricerca di luce vera e di fuoco che consumi, abbia il coraggio di scostare un po’ di cenere e di gettarvi sopra una bracciata di legna secca, che subito il fuoco e la luce si fanno nuovamente vedere.
Ormai vecchio, vicino alla morte, un grande spirituale italiano confidò a me e a un mio fratello: “Me ne vado dopo aver combattuto per riformare la chiesa, ma ora sono convinto che la chiesa sia irreformabile”. Quelle parole mi stupirono, mi fecero male, ma non nego che ora a volte sono tentato di condividerle. Siamo capaci di dare alla chiesa un volto nuovo, più fedele e conforme al volto di Cristo, oppure questa è solo una speranza, e la sposa di Cristo sarà tale solo quando verrà lo Sposo? Mi ostino a credere che alla brace del Vangelo basti il soffio dello Spirito per riprendere ad ardere, riscaldando i nostri cuori e illuminando l’umanità intera. Sì, il Vangelo si può ancora vivere in ogni stagione.
Enzo Bianchi

giovedì 1 settembre 2011

Sono nato troppo in alto...

Settembre 2010:
(Frattini) I rapporti che l’Italia ha con Gheddafi non li ha nessun altro Paese … puntando il dito contro la Libia non si ottiene nulla. Noi non lo abbiamo mai fatto, e anche per questo possiamo raggiungere risultati. Gheddafi ci apre le porte di tutta l’Africa.
Gennaio 2011:
(Frattini)Credo si debbano sostenere con forza i governi di quei Paesi, dal Marocco all’Egitto, nei quali ci sono regimi laici tenendo alla larga il fondamentalismo … Faccio l’esempio di Gheddafi, un modello per il mondo arabo ... Ha realizzato una riforma dei “Congressi provinciali del popolo”: distretto per distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati locali, discutono e avanzano richieste al governo e al leader … Ogni settimana Gheddafi va lì e ascolta. Per me sono segnali positivi.
Febbraio 2011:
(sempre lui…) Non dobbiamo dare l’impressione sbagliata di volere interferire, di volere esportare la nostra democrazia ... Vi immaginate un emirato islamico ai confini con l’Europa? Questa sarebbe veramente una seria minaccia … Se tollerassimo che l’economia crollasse in questi paesi saremmo noi i primi a pagarne le conseguenze …
1 Settembre 2011 - ''Il conflitto in Libia ha portato ad un unico vincitore, il suo popolo, il cui coraggio ha permesso al Paese di liberarsi di una delle piu' sanguinarie tirannie del mondo''. Cosi' il ministro degli Esteri Franco Frattini in un editoriale pubblicato sul Wall street journal nel giorno della Conferenza internazionale di Parigi. 
Il titolare della Farnesina ha ricordato come ''l'Italia e' stata uno dei Paesi maggiormente impegnati nella missione libica sia dal punto di vista militare, diplomatico che da quello umanitario''. 
''La visione del governo italiano sull'amministrazione post-Gheddafi si basa su tre principi fondamentali: ownership, coesione internazionale e impegno a lungo termine e in primo luogo bisogna rispettare l'ownership libica'', ha aggiunto sottolineando come la comunita' internazionale dovrebbe evitare un atteggiamento paternalistico verso la Libia.  (ASCA)