martedì 6 settembre 2011

meno parole, più Vangelo

"..Ma il vescovo deve avere il coraggio e la libertà di dire quel che pensa sia giusto, quel che dice il Vangelo, senza temere le critiche...Oggi più che mai abbiamo bisogno di una Chiesa radicata in Cristo, che metta lui e non l’organizzazione o il successo mondano al centro".

In fondo come cristiani non abbiamo espresso sempre al meglio quel coraggio e quella libertà avuti in dono dalla nostra fede. E' assai più rassicurante non contrastare nessuno, fare come fan tutti.   Anche tra di noi, nella nostra Chiesa, è sempre bene essere prudenti, scambiando la prudenza per l'ignavia, la ponderatezza e la cautela con il silenzio che celano, a volte, la paura di  ritorsioni.   E poi quanto con il nostro silenzio complice, i nostri occhi chiusi e le nostre labbra sigillate o balbettanti suoni impercettibili hanno tollerato ogni cosa , fino a rendere inumano il vivere?        Ci sarebbe allora bisogno di una Chiesa, autocentrata e autoreferenziale sradicata da Cristo, che non guardasse altro che al proprio successo?...
 
Sono queste le riflessioni che mi hanno suscitato le parole del cardinal Tettamanzi il quale,  nel lasciare Milano e cedere il posto al cardinale Angelo Scola (il prossimo 25 settembre)   nell'intervista a Famiglia Cristiana,  offre un bilancio dei suoi nove anni alla guida della cattedra di san Carlo Borromeo.


Tettamanzi: meno parole, più Vangelo

Dopo nove anni alla guida della diocesi milanese, un bilancio della sua esperienza. Vescovo scomodo? «Ho cercato di fare della Parola del Signore la bussola del mio episcopato».

Eminenza, com’è cambiata Milano?
«Inizierei da ciò che non è cambiato. A Milano ho trovato una Chiesa forte, una tradizione viva, ricca di fede e di umanità. Ho trovato in città una marcata propensione al dialogo, un’apertura mentale, culturale e spirituale che alcuni venti avversi, spirati violentemente in questi anni, non sono riusciti a sradicare. Tanti i cambiamenti, invece, ma da leggere in modo accorto: il progressivo impoverimento economico delle famiglie, ma al tempo stesso l’aumento della pratica della solidarietà; la crescente disaffezione verso la politica e l’aumentata voglia di “dire la propria” sulla città; il peggioramento di alcune prospettive di stabilità per il lavoro dei giovani ma, insieme, le accresciute opportunità formative e culturali; l’aumento del numero degli immigrati e la crescente incapacità a farli sentire protagonisti della società; l’aumento della ricchezza per pochi, l’indebitamento crescente per molti. Dimenticavo un’altra cosa che non è cambiata: gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre d’attualità».

E il Paese come è cambiato visto dall’osservatorio di Milano?
«Tante le urgenze sociali che attendono cura e dedizione. E già questo temo sia un segnale di scadimento della qualità della vita della nostra nazione, che però nulla ha perso del suo orgoglio, della sua speranza, delle sue potenzialità. Chi ha responsabilità sociali pubbliche deve lavorare per il benessere comunitario. Non si può pensare di poter tutelare “qualcuno” dimenticando “altri”, nemmeno – e mi spingo quasi al paradosso – difendere i diritti dei più “deboli” a danno dei più “forti”. I deboli vanno tutelati certo, ma non con continui e straordinari atti di assistenzialismo. Devono essere tutelati dallo svolgersi ordinario della vita sociale perché ritenuti parte preziosa, importante, necessaria alla vita del Paese».

Chi sono i deboli oggi?
«Gli immigrati, gli anziani, chi fatica ad avere le risorse economiche. Ma i più deboli oggi sono purtroppo i giovani, preoccupati per la mancanza di prospettive serie di lavoro, di famiglia, di stabilità, di spazi di giusto protagonismo, di modelli di vita, di opportunità dove misurarsi e mettersi alla prova: insomma, poveri di futuro. In questo, il Paese purtroppo è peggiorato. Chi governa dovrebbe avere il coraggio e la determinazione di impostare le manovre economiche assicurando una vera speranza ai giovani, all’infanzia, alla scuola. Se vogliamo che il futuro del Paese sia migliore, è qui che occorre indirizzare le energie».

A Milano abitano 400 mila musulmani, ma la città si oppone alla costruzione di una moschea. È stato difficile per lei in questi anni predicare una civiltà multietnica?
«La nostra società fa ancora fatica a confrontarsi veramente con l’immigrazione, che, se per alcuni può essere un problema, per tutti dovrebbe essere, invece, un’opportunità. È all’immigrazione che Milano deve non poco della sua fortuna: questa città è frutto di ripetuti e successivi processi di integrazione. È una memoria da recuperare. Sicuramente occorre intervenire per regolare doverosamente il fenomeno migratorio, garantendo la legalità, attivandosi di concerto con le altre nazioni. Ed è indubitabile che anche la Chiesa debba fare la propria parte. Purtroppo, invece, spesso accade che a prevalere sia la paura dell’altro».
Come già accennava, si ripropone una “questione morale” ancora una volta a Milano (caso Penati): lei, il vescovo di Milano, quali riflessioni ha fatto sulla politica e l’economia e gli intrecci poco virtuosi, che portano alla corruzione, spesso reciproca, denunciata anche recentemente da papa Benedetto XVI?
«Ogni giorno, leggendo i giornali, si è portati a pensare che si stia sprofondando sempre più in basso. L’immoralità è dilagante, a tutti i livelli della società, e pare che al peggio non ci sia più limite, che la catastrofe sia alle porte. Dovremmo però purificare lo sguardo, magari aiutati da mezzi di comunicazione più coraggiosi. Molti sono corrotti, ma non mancano gli amministratori onesti. Penso ai tanti sindaci, amministratori locali, consiglieri provinciali o regionali, parlamentari che incontro e che mi testimoniano la loro passione per il bene comune, quasi consumati dalla voglia sincera di servire e migliorare il proprio Comune, il territorio, il Paese. Non dimentichiamoci di loro, così come di chi continua con dedizione a far “funzionare” il Paese, a garantire i servizi supplendo alle negligenze di chi ha maggiori responsabilità. Prima di accusare l’immoralità degli altri, ciascuno verifichi sé stesso, i piccoli gesti quotidiani, sia fedele nelle proprie piccole e grandi responsabilità».
La crisi e le famiglie: lei ha costituito il Fondo di solidarietà, poi molti, anche la Cei, hanno copiato l’idea. Cosa è stato fatto?
«È stato fatto moltissimo grazie alla generosità di tante persone, dei privati, dei gruppi. Ma ancora molto rimane da fare. Il Fondo Famiglia Lavoro è stato un gesto straordinario nei risultati ottenuti, nel tipo di proposta. Tanta solidarietà si è attivata, spesso anche da dove non ci si aspettava. Quella che non vedo ancora compiuta è la conversione degli “stili di vita”, che devono essere fortemente segnati dalla sobrietà e dall’essenzialità».

Milano è la città da dove sono venute persone che hanno cambiato l’Italia. Forse insistendo troppo sui personalismi: da Craxi a Berlusconi, a Bossi. Milano è anche diventata la città di Tettamanzi, il vescovo che si è “opposto”, un vescovo sgradito e per alcuni un vescovo con un ruolo “innaturale”. Lei che idea si è fatto del ruolo di un vescovo a Milano?

«Milano è una città dove l’impronta cristiana è forte. Guidare la Chiesa ambrosiana, in un territorio complesso come quello di Milano, è un peso e una grande responsabilità, ma è anche un’esperienza di singolare arricchimento. Come vescovo a Milano ho cercato di servire il Vangelo e di fare della Parola del Signore la bussola e la guida del mio episcopato. Ci sono stati momenti di difficoltà, fatiche anche. Ma il vescovo deve avere il coraggio e la libertà di dire quel che pensa sia giusto, quel che dice il Vangelo, senza temere le critiche».
Da Ancona alla segreteria della Cei, e poi a Genova e a Milano, lei ha avuto molte responsabilità. Qual è lo “stato di salute” della comunità ecclesiale italiana?
«La Chiesa è in salute sempre, perché lo Spirito di Cristo la sostiene, ma al tempo stesso sperimenta non poche fatiche nella storia, anche per mancanze proprie. La Chiesa è “santa”, immacolata, essendo la Sposa del Signore, pur sperimentando le macchie del peccato dei suoi membri. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una Chiesa radicata in Cristo, che metta lui e non l’organizzazione o il successo mondano al centro».

Sembra che il semplice annuncio del Vangelo sia tuttora dirompente, in una società come la nostra. A suo parere, da che cosa è motivato questo eterno “scandalo” rappresentato dal cristianesimo?

«Sulla Parola di Dio, che è una promessa, si fonda l’amore. La nostra società vive di parole, troppe e spesso inutili parole. Ecco, forse da qui, dall’osservazione della realtà, bisogna partire per rispondere alla vostra domanda: travolti dalle parole – vuote, inefficaci, convenzionali, inaffidabili – la donna e l’uomo di oggi sperimentano l’insopprimibile bisogno di una parola affidabile, carica di senso, che compia quanto promette, che dischiuda l’orizzonte e mostri il futuro. E la Parola di Dio, se adeguatamente annunciata e udita, ha questa forza sempre nuova, dirompente, che a volte scandalizza, ed è capace di attrarre e affascinare l’uomo contemporaneo».



 

Nessun commento:

Posta un commento