Tettamanzi: meno parole, più Vangelo
Dopo nove anni
alla guida della diocesi milanese, un bilancio della sua esperienza.
Vescovo scomodo? «Ho cercato di fare della Parola del Signore la bussola
del mio episcopato».
Eminenza,
com’è cambiata Milano?
«Inizierei da ciò che non è cambiato. A Milano ho trovato una Chiesa forte,
una tradizione viva, ricca di fede e di umanità. Ho trovato in città una
marcata propensione al dialogo, un’apertura mentale, culturale e spirituale
che alcuni venti avversi, spirati violentemente in questi anni, non sono
riusciti a sradicare. Tanti i cambiamenti, invece, ma da leggere in modo
accorto: il progressivo impoverimento economico delle famiglie, ma al tempo
stesso l’aumento della pratica della solidarietà; la crescente disaffezione
verso la politica e l’aumentata voglia di “dire la propria” sulla città; il
peggioramento di alcune prospettive di stabilità per il lavoro dei giovani
ma, insieme, le accresciute opportunità formative e culturali; l’aumento
del numero degli immigrati e la crescente incapacità a farli sentire
protagonisti della società; l’aumento della ricchezza per pochi,
l’indebitamento crescente per molti. Dimenticavo un’altra cosa che non è
cambiata: gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano
insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre
d’attualità».
E il
Paese come è cambiato visto dall’osservatorio di Milano?
«Tante le urgenze sociali che attendono cura e dedizione. E già questo temo
sia un segnale di scadimento della qualità della vita della nostra nazione,
che però nulla ha perso del suo orgoglio, della sua speranza, delle sue
potenzialità. Chi ha responsabilità sociali pubbliche deve lavorare per il
benessere comunitario. Non si può pensare di poter tutelare “qualcuno”
dimenticando “altri”, nemmeno – e mi spingo quasi al paradosso – difendere
i diritti dei più “deboli” a danno dei più “forti”. I deboli vanno tutelati
certo, ma non con continui e straordinari atti di assistenzialismo. Devono
essere tutelati dallo svolgersi ordinario della vita sociale perché
ritenuti parte preziosa, importante, necessaria alla vita del Paese».
Chi
sono i deboli oggi?
«Gli immigrati, gli anziani, chi fatica ad avere le risorse economiche. Ma
i più deboli oggi sono purtroppo i giovani, preoccupati per la mancanza di
prospettive serie di lavoro, di famiglia, di stabilità, di spazi di giusto
protagonismo, di modelli di vita, di opportunità dove misurarsi e mettersi
alla prova: insomma, poveri di futuro. In questo, il Paese purtroppo è
peggiorato. Chi governa dovrebbe avere il coraggio e la determinazione di
impostare le manovre economiche assicurando una vera speranza ai giovani,
all’infanzia, alla scuola. Se vogliamo che il futuro del Paese sia
migliore, è qui che occorre indirizzare le energie».
A
Milano abitano 400 mila musulmani, ma la città si oppone alla costruzione
di una moschea. È stato difficile per lei in questi anni predicare una
civiltà multietnica?
«La nostra società fa ancora fatica a confrontarsi veramente con
l’immigrazione, che, se per alcuni può essere un problema, per tutti
dovrebbe essere, invece, un’opportunità. È all’immigrazione che Milano deve
non poco della sua fortuna: questa città è frutto di ripetuti e successivi
processi di integrazione. È una memoria da recuperare. Sicuramente occorre
intervenire per regolare doverosamente il fenomeno migratorio, garantendo
la legalità, attivandosi di concerto con le altre nazioni. Ed è
indubitabile che anche la
Chiesa debba fare la propria parte. Purtroppo, invece,
spesso accade che a prevalere sia la paura dell’altro».
Come
già accennava, si ripropone una “questione morale” ancora una volta a Milano
(caso Penati): lei, il vescovo di Milano, quali riflessioni ha fatto sulla
politica e l’economia e gli intrecci poco virtuosi, che portano alla
corruzione, spesso reciproca, denunciata anche recentemente da papa
Benedetto XVI?
«Ogni giorno, leggendo i giornali, si è portati a pensare che si stia
sprofondando sempre più in basso. L’immoralità è dilagante, a tutti i
livelli della società, e pare che al peggio non ci sia più limite, che la
catastrofe sia alle porte. Dovremmo però purificare lo sguardo, magari
aiutati da mezzi di comunicazione più coraggiosi. Molti sono corrotti, ma
non mancano gli amministratori onesti. Penso ai tanti sindaci,
amministratori locali, consiglieri provinciali o regionali, parlamentari
che incontro e che mi testimoniano la loro passione per il bene comune,
quasi consumati dalla voglia sincera di servire e migliorare il proprio
Comune, il territorio, il Paese. Non dimentichiamoci di loro, così come di
chi continua con dedizione a far “funzionare” il Paese, a garantire i servizi
supplendo alle negligenze di chi ha maggiori responsabilità. Prima di
accusare l’immoralità degli altri, ciascuno verifichi sé stesso, i piccoli
gesti quotidiani, sia fedele nelle proprie piccole e grandi
responsabilità».
La
crisi e le famiglie: lei ha costituito il Fondo di solidarietà, poi molti,
anche la Cei,
hanno copiato l’idea. Cosa è stato fatto?
«È stato fatto moltissimo grazie alla generosità di tante persone, dei
privati, dei gruppi. Ma ancora molto rimane da fare. Il Fondo Famiglia
Lavoro è stato un gesto straordinario nei risultati ottenuti, nel tipo di
proposta. Tanta solidarietà si è attivata, spesso anche da dove non ci si
aspettava. Quella che non vedo ancora compiuta è la conversione degli
“stili di vita”, che devono essere fortemente segnati dalla sobrietà e
dall’essenzialità».
Milano è la città da dove sono venute persone che hanno cambiato
l’Italia. Forse insistendo troppo sui personalismi: da Craxi a Berlusconi,
a Bossi. Milano è anche diventata la città di Tettamanzi, il vescovo che si
è “opposto”, un vescovo sgradito e per alcuni un vescovo con un ruolo
“innaturale”. Lei che idea si è fatto del ruolo di un vescovo a Milano?
«Milano è una città dove l’impronta cristiana è forte. Guidare la Chiesa ambrosiana, in
un territorio complesso come quello di Milano, è un peso e una grande
responsabilità, ma è anche un’esperienza di singolare arricchimento. Come
vescovo a Milano ho cercato di servire il Vangelo e di fare della Parola
del Signore la bussola e la guida del mio episcopato. Ci sono stati momenti
di difficoltà, fatiche anche. Ma il vescovo deve avere il coraggio e la
libertà di dire quel che pensa sia giusto, quel che dice il Vangelo, senza
temere le critiche».
Da
Ancona alla segreteria della Cei, e poi a Genova e a Milano, lei ha avuto
molte responsabilità. Qual è lo “stato di salute” della comunità ecclesiale
italiana?
«La Chiesa
è in salute sempre, perché lo Spirito di Cristo la sostiene, ma al tempo
stesso sperimenta non poche fatiche nella storia, anche per mancanze
proprie. La Chiesa
è “santa”, immacolata, essendo la
Sposa del Signore, pur sperimentando le macchie del
peccato dei suoi membri. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una Chiesa
radicata in Cristo, che metta lui e non l’organizzazione o il successo
mondano al centro».
Sembra che il semplice annuncio del Vangelo sia tuttora dirompente,
in una società come la nostra. A suo parere, da che cosa è motivato questo
eterno “scandalo” rappresentato dal cristianesimo?
«Sulla Parola di Dio, che è una promessa, si fonda l’amore. La nostra
società vive di parole, troppe e spesso inutili parole. Ecco, forse da qui,
dall’osservazione della realtà, bisogna partire per rispondere alla vostra
domanda: travolti dalle parole – vuote, inefficaci, convenzionali,
inaffidabili – la donna e l’uomo di oggi sperimentano l’insopprimibile
bisogno di una parola affidabile, carica di senso, che compia quanto
promette, che dischiuda l’orizzonte e mostri il futuro. E la Parola di Dio, se
adeguatamente annunciata e udita, ha questa forza sempre nuova, dirompente,
che a volte scandalizza, ed è capace di attrarre e affascinare l’uomo
contemporaneo».
|
Nessun commento:
Posta un commento