domenica 1 novembre 2015

Chiamati alla felicità nel qui ed ora



Forse eravamo troppo concentrati su noi stessi, forse le nostre sofferenze, la stanchezza data dal  nostro “male di vivere” ci ha piegati e resi impermeabili ad una possibilità di gioia, ad una chiamata alla felicità.  Forse il protrarsi per lungo tempo di un dolore che pervade ogni istante da sempre e sino alla fine  intristisce il cuore fino a renderlo cupo. 

Eppure, malgrado tutto, pur nel dolore dentro il quale, in modi diversi, siamo tante volte destinati a vivere, quasi inchiodati  e con la rabbia e la disperazione che prepotenti schiacciano il cuore e lo inaridiscono, si affaccia pur una luce fioca, quasi una scintilla.   Pur facendo di tutto per rimuoverla, nasconderla sono convinto che la sofferenza sia sempre presente e minaccia contraddicendo  la  nostra vita felice: è presente nelle viscere, nelle menti e nei cuori che soffrono fino a piangere e gridare.

Chi è afflitto e angosciato, chi sperimenta sin nel midollo la sofferenza fa l’esperienza di non poter esprimere completamente né di poterla comunicare credendola unica e assoluta.

Si urla al cielo: «Che senso ha soffrire? Perché soffrire cosi?»

Sono convinto che non vi sia una risposta chiara ed evidente al perché della sofferenza, a questo enigma, neanche a partire dalla fede.

Non ho mai creduto che le sofferenze di per sé sono utili né salvifiche, né meccaniche portatrici di purificazioni.  Credo però che in esse e attraverso di esse si giochi sempre la salvezza della nostra vita, la ricerca di senso: in particolare, quando le sofferenze ci travolgono e sembrano non finire mai fino a sommergerci, proprio allora ci è chiesto di impegnarci ad amare e ad accettare di essere amati. Proprio allora è come se fossimo chiamati a trovare nuovi punti di vista, nuovi orizzonti. Nella debolezza siamo chiamati a lottare, ad ingaggiare una fiera resistenza.  E pure anche una condotta di accettazione e di obbedienza alla nostra condizione: non siamo eterni, non siamo onnipotenti, non siamo immuni da malattia e dolore. E questa lotta sarà tanto più valida  e più ricca di significato se è fatta «insieme», in modo che «si piange con chi piange» (cfr. Rm 12,15), si è a fianco di chi è malato, si abbraccia chi si sente attrarre e sprofondare nel precipizio.
Nessuno può risolvere il problema della sofferenza né c’è alcuna risposta certa al perché di così tanto "gratuito" soffrire, ma le vie di consolazione sono percorribili, con gli altri e comunque con Dio, il Consolatore.  


Leggo le Beatitudini,  quel grande discorso di Gesù, riferito da Matteo, come il discorso della montagna.   Già all’inizio preannuncia solennità, ogni piccolo gesto è come se fosse ripreso al rallentatore: Gesù vede le folle, sale sul monte, si mette a sedere, inizia a parlare (nel testo originale greco dice “apre la sua bocca”), comincia ad insegnare. Questo ritratto esprime l’importanza di quanto Gesù sta per dire e l’autorità di vero maestro con cui Egli parla.

La prima e l’ottava beatitudine hanno la stessa motivazione: perché di essi è il regno dei cieli. Dunque il tema del regno dei cieli apre e chiude le beatitudini, le “racchiude” come una cornice.     



Penso che Matteo volesse offrire una pagina indimenticabile, che rimanesse indelebile al punto che tutte le generazioni di cristiani potessero assimilarla, farla entrare nel nostro modo di pensare e di vivere.



Sono due i termini ricorrenti e decisivi: beati, e regno dei cieli.   Sono molte le beatitudini che sono presenti nella Bibbia (ad es. il primo salmo si apre proprio con le parole: Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi). Gesù stesso pronuncia altre beatitudini. Per esempio: Beato chi non trova in me motivo di scandalo (Mt 11,6); Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano (Lc 11,28); Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto (Gv 20,29).   Ma è  solo qui che abbiamo un elenco di beatitudini.



Il termine beato potrebbe anche essere tradotto con un’esclamazione del tipo: “Felicità”, ”prosperità”, “auguri a…”.

Dunque quasi a dire “felicitazioni a te che ti disponi a diventare discepolo del regno”. Coloro di cui parla Gesù, sono persone che hanno motivi per rallegrarsi, che trovano ragioni - profonde, non superficiali - per considerare la loro vita degna di essere vissuta, e questo genera gioia.

Le Beatitudini ci dicono allora che la vita cristiana non è contraria o indisposta alla felicità o diffidente. Credo che al vita cristiana autentica non sia da intendersi solo come una vita buona, cioè ispirata alla bontà e all’amore, ma è anche una via di bellezza e di felicità; c’è in essa una chiamata alla felicità.   



Dio è chi in ogni modo consola i suoi figli quindi si può rischiare di lasciarsi raggiungere da qualunque sofferenza perché egli cambierà il nostro stato di dolore in un’esistenza di gioia.

In realtà, non sempre noi mostriamo questo volto felice della vita cristiana. Vive gioiosamente chi ha scovato motivi validi per cui vale la pena di vivere; ragioni per cui si può spendere quotidianamente la vita, e addirittura morire. Le beatitudini ci aiutano a scoprire queste ragioni.

E si deve notare che la felicità prospettata dalle beatitudini non è (solo) quella futura, quella dell’aldilà (alcuni esegeti mostrano che neppure vi si alluda a un “paradiso”).  Spesso s’intendono così le parole di Gesù: adesso sei in uno stato di sofferenza; ebbene, abbi pazienza, resisti, stringi i denti, perché nell’aldilà, in paradiso, finirà ogni sofferenza e avrai solo gioia (in questo senso possono avere buon gioco i detrattori del messaggio cristiano).



Ma Gesù non dice che i poveri, i miti, gli afflitti saranno beati: dice che sono beati, lo sono ora. È nella loro condizione presente, nell’hic et nunc, che essi, mettendosi alla sequela di Gesù, sperimentano la felicità.  È vero, la trovano dentro la storia in cui sono incarnati, nelle condizioni difficili (la povertà, l’afflizione, la persecuzione…la lista si può allungare sino a comprendere ogni tipo di sofferenza, la malattia, );  ma proprio in queste condizioni sono chiamati a far emergere la consapevolezza che dentro l’orizzonte del Regno, cioè dentro la relazione con Dio, nel cammino al seguito di Gesù, anche queste situazioni umanamente pesanti, negative o distruttive possono essere vissute come produttive,  si trasformano.  L’accoglienza del vangelo, della ”buona notizia” del Regno di Dio che si fa presente, cioè del suo amore, trasforma l’esistenza, facendo emergere  una gioia nascosta.

Tutto ciò può sembrare illusorio, ingannevole.

Sconforto e rabbia possono accamparsi dilatandosi alla radice dell’esistenza.  E anche questi sentimenti sono vivi nel cuore dell’uomo e in alcune parti attraversano la parola di Dio.



Eppure, è esperienza quotidiana, s’ incontrano persone che, nella fede, pur vivendo prove difficili (lutti, malattie incurabili, offese subite, precarietà economiche, ecc.), lasciano trasparire serenità, speranza, accettazione.  L’affermazione di una possibile felicità di vita esclude la rassegnazione, il ripiegamento estremo.



Persino riescono a farsi carico e sono più attente alle piccole sofferenze degli altri che alle loro grandi sofferenze. Penso anche al testo degli Atti degli Apostoli, in cui si dice che gli apostoli, dopo essere stati fatti flagellare per ordine del Sinedrio, «se ne andarono lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (5,41). Flagellazioni e oltraggi erano per loro, senza dubbio, una reale sofferenza; ma il subirli “per il nome di Gesù” (cioè per la sua persona di Gesù) era motivo di letizia.

Rimane anche vigile lo sguardo al futuro, al compimento delle promesse di Dio, all’oltre la morte, all’ultima parola che sarà da lui pronunciata.

Il testo dice che sono beati perché saranno consolati, saziati; erediteranno, vedranno, troveranno. 
È una beatitudine dove ha grande spazio l’ affidamento, la speranza, lo sguardo in avanti.


La decisiva gioia futura è anche gioia assaporata nel presente. 
Nel qui ed ora la genesi, la radice e l’inizio della chiamata alla felicità.