Forse
eravamo troppo concentrati su noi stessi, forse le nostre sofferenze, la
stanchezza data dal nostro “male di vivere” ci ha piegati e resi
impermeabili ad una possibilità di gioia, ad una chiamata alla felicità. Forse il protrarsi per lungo tempo di un
dolore che pervade ogni istante da sempre e sino alla fine intristisce il cuore fino a renderlo cupo.
Eppure,
malgrado tutto, pur nel dolore dentro il quale, in modi diversi, siamo tante
volte destinati a vivere, quasi inchiodati
e con la rabbia e la disperazione che prepotenti schiacciano il cuore e
lo inaridiscono, si affaccia pur una luce fioca, quasi una scintilla. Pur facendo di tutto per rimuoverla,
nasconderla sono convinto che la sofferenza sia sempre presente e minaccia contraddicendo
la nostra vita felice: è presente nelle viscere,
nelle menti e nei cuori che soffrono fino a piangere e gridare.
Chi è afflitto e angosciato, chi sperimenta sin nel
midollo la sofferenza fa l’esperienza di non poter esprimere completamente né
di poterla comunicare credendola unica e assoluta.
Si urla al cielo: «Che senso ha soffrire? Perché
soffrire cosi?»
Sono convinto che non vi sia una risposta chiara ed
evidente al perché della sofferenza, a questo enigma, neanche a partire dalla
fede.
Non ho mai creduto che le sofferenze di per sé sono
utili né salvifiche, né meccaniche portatrici di purificazioni. Credo però che in esse e attraverso di esse
si giochi sempre la salvezza della nostra vita, la ricerca di senso: in
particolare, quando le sofferenze ci travolgono e sembrano non finire mai fino
a sommergerci, proprio allora ci è chiesto di impegnarci ad amare e ad
accettare di essere amati. Proprio allora è come se fossimo chiamati a
trovare nuovi punti di vista, nuovi orizzonti. Nella debolezza siamo chiamati a
lottare, ad ingaggiare una fiera resistenza. E pure anche una condotta di accettazione e di obbedienza alla nostra
condizione: non siamo eterni, non siamo onnipotenti,
non siamo immuni da malattia e dolore. E questa lotta sarà tanto più valida e più ricca di
significato se è fatta «insieme», in modo che «si piange con chi piange» (cfr.
Rm 12,15), si è a fianco di chi è malato, si abbraccia chi si sente attrarre e sprofondare nel precipizio.
Nessuno può risolvere il problema della sofferenza né c’è alcuna risposta certa al perché di così tanto "gratuito" soffrire, ma le vie di consolazione sono percorribili, con gli altri e comunque con Dio, il Consolatore.
Nessuno può risolvere il problema della sofferenza né c’è alcuna risposta certa al perché di così tanto "gratuito" soffrire, ma le vie di consolazione sono percorribili, con gli altri e comunque con Dio, il Consolatore.
Leggo
le Beatitudini, quel
grande discorso di Gesù, riferito da Matteo, come il discorso della montagna.
Già all’inizio preannuncia solennità,
ogni piccolo gesto è come se fosse ripreso al rallentatore: Gesù vede le folle,
sale sul monte, si mette a sedere, inizia a parlare (nel testo originale greco
dice “apre la sua bocca”), comincia ad insegnare. Questo ritratto esprime
l’importanza di quanto Gesù sta per dire e l’autorità di vero maestro con cui
Egli parla.
La prima e
l’ottava beatitudine hanno la stessa motivazione: perché di essi è il regno
dei cieli. Dunque il tema del regno dei cieli apre e chiude le
beatitudini, le “racchiude” come una cornice.
Penso che Matteo volesse
offrire una pagina indimenticabile, che rimanesse indelebile al punto che tutte
le generazioni di cristiani potessero assimilarla, farla entrare nel nostro
modo di pensare e di vivere.
Sono due i termini
ricorrenti e decisivi: beati, e regno dei cieli. Sono molte le beatitudini che sono presenti
nella Bibbia (ad es. il primo salmo si apre proprio con le parole: Beato
l’uomo che non segue il consiglio degli empi). Gesù stesso pronuncia altre
beatitudini. Per esempio: Beato chi non trova in me motivo di scandalo (Mt
11,6); Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano (Lc
11,28); Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto (Gv 20,29). Ma è solo
qui che abbiamo un elenco di beatitudini.
Il termine beato
potrebbe anche essere tradotto con un’esclamazione del tipo: “Felicità”,
”prosperità”, “auguri a…”.
Dunque quasi a
dire “felicitazioni a te che ti disponi a diventare discepolo del regno”. Coloro
di cui parla Gesù, sono persone che hanno motivi per rallegrarsi, che trovano
ragioni - profonde, non superficiali - per considerare la loro vita degna di
essere vissuta, e questo genera gioia.
Le Beatitudini ci
dicono allora che la vita cristiana non è contraria o indisposta alla felicità
o diffidente. Credo che al vita cristiana autentica non sia da intendersi solo
come una vita buona, cioè ispirata alla bontà e all’amore, ma è anche una via
di bellezza e di felicità; c’è in essa una chiamata alla felicità.
Dio è chi in ogni
modo consola i suoi figli quindi si
può rischiare di lasciarsi raggiungere da qualunque sofferenza perché egli
cambierà il nostro stato di dolore in un’esistenza di gioia.
In realtà, non
sempre noi mostriamo questo volto felice della vita cristiana. Vive
gioiosamente chi ha scovato motivi validi per cui vale la pena di vivere;
ragioni per cui si può spendere quotidianamente la vita, e addirittura morire.
Le beatitudini ci aiutano a scoprire queste ragioni.
E si deve notare
che la felicità prospettata dalle beatitudini non è (solo) quella futura,
quella dell’aldilà (alcuni esegeti mostrano che neppure vi si alluda a un
“paradiso”). Spesso s’intendono così le
parole di Gesù: adesso sei in uno stato di sofferenza; ebbene, abbi pazienza,
resisti, stringi i denti, perché nell’aldilà, in paradiso, finirà ogni
sofferenza e avrai solo gioia (in questo senso possono avere buon gioco i
detrattori del messaggio cristiano).
Ma Gesù non dice
che i poveri, i miti, gli afflitti saranno beati: dice che sono beati,
lo sono ora. È nella loro condizione
presente, nell’hic et nunc, che essi, mettendosi alla sequela di Gesù, sperimentano
la felicità. È vero, la trovano dentro la
storia in cui sono incarnati, nelle condizioni difficili (la povertà,
l’afflizione, la persecuzione…la lista si può allungare sino a comprendere ogni
tipo di sofferenza, la malattia, ); ma
proprio in queste condizioni sono chiamati a far emergere la consapevolezza che
dentro l’orizzonte del Regno, cioè dentro la relazione con Dio, nel cammino al
seguito di Gesù, anche queste situazioni umanamente pesanti, negative o
distruttive possono essere vissute come produttive, si trasformano. L’accoglienza del vangelo, della ”buona
notizia” del Regno di Dio che si fa presente, cioè del suo amore, trasforma
l’esistenza, facendo emergere una gioia
nascosta.
Tutto ciò può sembrare
illusorio, ingannevole.
Sconforto e rabbia
possono accamparsi dilatandosi alla radice dell’esistenza. E anche questi sentimenti sono vivi nel cuore
dell’uomo e in alcune parti attraversano la parola di Dio.
Eppure, è
esperienza quotidiana, s’ incontrano persone che, nella fede, pur vivendo prove
difficili (lutti, malattie incurabili, offese subite, precarietà economiche,
ecc.), lasciano trasparire serenità, speranza, accettazione. L’affermazione di una possibile felicità di
vita esclude la rassegnazione, il ripiegamento estremo.
Persino riescono a
farsi carico e sono più attente alle piccole sofferenze degli altri che alle
loro grandi sofferenze. Penso anche al testo degli Atti degli Apostoli, in cui
si dice che gli apostoli, dopo essere stati fatti flagellare per ordine del
Sinedrio, «se ne andarono lieti di essere stati giudicati degni di subire
oltraggi per il nome di Gesù» (5,41). Flagellazioni e oltraggi erano per loro,
senza dubbio, una reale sofferenza; ma il subirli “per il nome di Gesù” (cioè
per la sua persona di Gesù) era motivo di letizia.
Rimane anche
vigile lo sguardo al futuro, al compimento delle promesse di Dio, all’oltre la
morte, all’ultima parola che sarà da lui pronunciata.
Il testo dice che sono
beati perché saranno
consolati, saziati; erediteranno, vedranno, troveranno.
È una beatitudine
dove ha grande spazio l’ affidamento, la speranza, lo sguardo in avanti.
La decisiva gioia
futura è anche gioia assaporata nel presente.
Nel qui ed ora la
genesi, la radice e l’inizio della chiamata alla felicità.