mercoledì 27 maggio 2015

Le ACLI: scommettere di nuovo nel qui ed ora



Sono anni che qualsiasi pensiero mi agita nel cuore, ogni lettura e incontro fatto, ogni evento che mi ha regalato emozioni forti lo annoto su fogli di carta volanti o su un’agendina che quasi sempre tengo nella tasca o nella borsa.   "Non bisogna essere perfetti per cominciare qualcosa di buono".  Recupero la citazione dell’abbè Pierre all’indomani della tre giorni romana; una tre giorni fitta e bella, piena e ricca di  suggestioni.
D’immagini e parole cariche di stimoli.

L’anniversario delle ACLI (un’associazione settantenne ma ancora spavalda e provocante come un’adolescente), festeggiato con il Papa in udienza con oltre settemila aclisti; la beatificazione del vescovo Oscar Romero, la gita a Roma e la visita al Colosseo con mio figlio e mia moglie.  Le parole del Papa, le esperienze proposte insieme alla narrazione della storia delle ACLI, la vita e la morte di monsignor Romero, la festa di popolo, i canti…

Considero la fortuna, la grazia di vivere questi momenti; di respirare una storia bella, fatta di persone che l’hanno attraversata lasciando cose buone, proposte audaci, granelli di bene.

Considero grazia e fortuna avere incontrato le ACLI; mi ritrovo nei gesti e nel pensiero che accompagna da settant’anni il cammino di generazioni di donne e uomini che hanno seminato speranza, che hanno contribuito a vivere con e nella giustizia, confidando nel Signore e abbeverandosi alla grazia della fede.

Non nascondo la piccolezza, a volte la meschinità di chi abita la storia, omuncoli e faccendieri ne sembrano i padroni (ma mi pare che ciò sveli ancor di più la presenza, umile e rispettosa, di Dio).

Trattengo un pensiero imbastito nell’aula Paolo VI in Vaticano, sollecitato da non ricordo quale immagine o parola catturata.

Vi sono volte in cui il desiderare di far bene ciò che si fa è passione, è piacere, soddisfazione intima e piena. Alcune volte è boria e pretesa, più una sfida con sé stessi, forse per dare prova di qualcosa, a sè o agli altri, all’intero universo e a Dio stesso.   E genera affanno.

Così al primo segnale di ansia, col tempo, ho imparato a ridurre la velocità.  È un avvisaglia precisa, nitida; mi dice che sto correndo troppo, che sto chiedendo troppo. Così rallento sino a fermarmi avendo ben chiaro che se la pretesa della perfezione, quest’ansia di prestazione  mi aggredisce allora non è più un piacere fare quel che faccio, immergermi nella concretezza del vivere. Diventa un modo per difendermi dalla paura di fallire e di sentirmi/mostrarmi  fragile. 

Allora penso che il perfezionismo sia l’avversario della concretezza, di quell' arte attraverso cui a volte riesco a districare i miei grovigli, a trasformare i miei pensieri in oggetti, a creare dal nulla trasferendo su un foglio un mio pensiero, una mia emozione.  A dedicarmi in modo disinteressato, quasi distaccandomi da me e rivolgendo ascolto e attenzione agli altri.

La perfezione è l’ opposto di quell’energia divina che abita in ciascuno di noi,  come lo sconforto, la resa e la scetticismo. Sono le due facce della stessa medaglia. Dapprima ci si gonfia, ci si esalta, si vede solo se stessi, poi arriva l’ansia con i suoi capogiri che stordendoti fanno cadere giù, deprimendoti, facendoti sentire un fallito, un incapace che mai riuscirà a fare qualcosa di buono.

Capita di sentirsi dei buoni a nulla e degli inetti: fa parte di quella fragilità che a volte ci spaventa così tanto, al punto da opprimerci.

Occorre temere invece quello strano appagamento che avvolge, senza che se ne sia consapevoli, in cui si crede di aver capito tutto e poter spiegare ogni cosa  articolando ragionamenti, argomentando e pensando di continuo.

Ma ogni cosa rimane lì.  Non le tocchi nemmeno.  Così attaccati da quel nemico dalle  due facce, si diventa tuttologi, onniscienti; pronti a distribuire critiche, colpe e croci. Gli altri sbagliano sempre e se le cose dipendessero da te tutto sarebbe migliore, perfetto.

E tutto rimane ancora lì.

Se non scatta in ciascuno anche un barlume di concretezza si deve temere. Agire, spingersi e rallentare... far qualcosa di buono, riconoscere di poter fallire e accettare di sbagliare… sentirsi piccoli e fragili e malgrado ciò continuare ad osare, a crederci, a sentirsi grandi: due facce della stessa medaglia, ma che non si combattono più, che accettano di camminare insieme.
Col tempo ho riconosciuto che la concretezza è un faticoso equilibrio. Si deve imparare ad utilizzare le proprie ansie per rallentare, non per accelerare, riconoscere ed utilizzare i propri errori per imparare e non per punirsi,  impiegare i momenti di fatica per riconoscere di avere bisogno di un aiuto e non per scoraggiarsi. 

Allora si intuisce che si può ricominciare.

Con umiltà e coraggio riconoscere che lo spirito, l'energia divina in noi, cammina sulle increspature dell'imperfezione, tra le pieghe dei nostri limiti e si incarna in maniera delicata ed opportuna ogni volta che, nella distanza tra il dire e il fare, abbiamo l'audacia e la baldanza di ricominciare. 

Anche questa è  parte della storia delle ACLI, è parte di un cammino di fede di uomini tra gli uomini, è quello  che mi ha detto il Papa, o così mi è sembrato di capire.

Ed è in mezzo all’esaltazione di credere di poter fare tutto e l’ansia di avvertirsi incapaci, si muove l’equilibrio della concretezza: che non ci chiede di essere perfetti, quasi enti completi e realizzati, ma di rimetterci in gioco scrutando i segni dei tempi e interpretandoli alla luce della Parola.

Di  scommettere di nuovo  nel qui ed ora.
Utilizza le tue ansie
per rallentare,
i tuoi errori per
imparare e i tuoi
momenti di fatica per
chiedere una mano

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