lunedì 9 dicembre 2013

"...ogni parola non imparata oggi è un calcio in culo domani.”

Su la Repubblica.it leggo in data odierna un articolo con questo titolo: Il reddito familiare influenza l'apprendimento dei figli. “È l'inquietante rivelazione di una ricerca dell'Università di Stanford: un bambino di famiglia benestante ascolta in famiglia circa 12mila parole a lui dirette al giorno, mentre un suo coetaneo cresciuto in una casa dal reddito più basso ne ascolta in media 670. Risultato: i primi apprendono più velocemente     Sotto i due anni, un bambino nato in una famiglia povera sente in media 670 parole a lui dirette ogni giorno. Un bambino nato in una famiglia benestante ne sente fino a 12 mila. Risultato: chi sente più parole è in grado di capire più velocemente, accumula un vocabolario più ampio e farà meno fatica a imparare a leggere e a scrivere.
Lo conferma una recente ricerca dell’Università di Stanford … che evidenzia come le differenze nell’apprendimento comincino nella prima infanzia.   Con il passare del tempo, quando i bambini arrivano alle elementari,
il figlio di una famiglia meno privilegiata risulta indietro fino a due anni rispetto ai coetanei di famiglie benestanti.
È il cosiddetto “development gap”. "Quello che vediamo qui è l’inizio delle disuguaglianze dello sviluppo, una disparità che cresce fra i bambini e che ha enormi ripercussioni sull’istruzione e sulle possibilità di carriera", scrive Fernald. Siccome il linguaggio è legato a doppio filo con la capacità di comprensione della parola scritta, molti bambini di famiglie svantaggiate si trovano ad affrontare un gradino più alto quando cominciano la scuola. E, molto difficilmente, recupereranno il terreno perduto in partenza.  Perché non ne avevamo mai sentito parlare?.....”   
Invito chi fosse interessato ad andare sul sito del quotidiano e leggersi per intero quanto qui ho riportato solo in una piccola parte.

 
Da parte mia mi appresto alla lettura di don Milani rilevando ancora una volta la profeticità del suo pensiero.            A don Milani interessava prima di tutto come essere cristiani e come essere cittadini, come ci si avvicinava a certi contenuti, come si vivevano i  momenti formativi, e un caposaldo nella concezione di don Milani era il problema culturale.

Don Milani diceva: “la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”.  Lui aveva capito che uno stato di povertà, dipendeva molto dal modo in cui le persone conoscevano, si impadronivano e approfondivano le parole.                                                                                               Nella scuola di Barbiana si trova ancora scritta questa frase:  l'operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone”.

La differenza culturale, la differenza di diseducazione, di non conoscenza, da don Milani era espressa con il termine “parole”. Le parole sono, noi diremmo, i contenuti mentali, i concetti, le teorie sulla padronanza linguistica, …; per don Milani le parole sono i contenuti che mancano alle persone.

Don Milani diceva che “solo la lingua rende uguali” .  Per questo, per difendersi dal potere (che è potere proprio perché è padrone della lingua, della cultura), è necessario che i giovani imparino a esprimersi e a comprendere un testo o un giornale (attenzione non quell'inutile sperpero di carta  delle varie gazzette sportive!!), dalla prima all'ultima pagina:  perché “un giornale non scrive per il fine che in teoria gli sarebbe primario cioè informare, ma di solito lo fa per influenzare in una direzione”.


Capire e sapersi difendere.  Eppure "saper leggere" nel senso di riconoscere le parole, non basta.  

Don Milani, pedagogicamente e politicamente, affermava che i padroni della lingua sono i padroni di tutto: sono loro che scrivono le leggi e chiaramente le scrivono adattandole alle loro esigenze: chiaro che, essendo fatte su misura, per loro sarà più facile rispettarle.  Ed è per questo che la scuola deve insegnare che "l'obbedienza non è più una virtù". Quando la legge è ingiusta (e cioè quando non difende i deboli) va respinta: se un ordine, sia pure un ordine militare, è ingiusto, non va eseguito!

Ma quanto sarebbe pericolosa in questo modo la scuola?

La lezione di don Milani oggi pare che l'abbia imparata molto bene soprattutto quella classe di potere dominante che lui voleva combattere attraverso la diffusione della cultura.  Si è  fatto esattamente il contrario di quello che voleva fare don Milani: si è deciso di restituire all'ignoranza e all'analfabetismo  autorevolezza sociale, considerazione massmediatica, insieme ad un diffuso credito trasversale. Negli ultimi vent'anni lo sforzo di creare una relazione quasi meccanica fra incultura e successo sociale è stato immenso e senza risparmio di energie. Dai politici, uomini di spettacolo, preti, personaggi pubblici, giornalisti di moda, si allunga la lista di coloro che si caratterizzano per la loro apparenza "popolare": rozzi, volgari, incolti, volutamente sprezzanti verso il pensiero ben articolato o coerente (spregiativamente bollato "intellettuale").
La classe dominante ha propagandato la sua stessa immagine in modo culturalmente sempre più basso: è sempre la classe padrona della lingua, certo; è sempre lei a scrivere leggi, gestire potere economico, potere politico, potere informativo. Nulla è cambiato rispetto alla rigidità dei recinti familiari del potere e della ricchezza (ricchi i figli dei ricchi, poveri i figli dei poveri e seppure questi ultimi riescono a risalire la china la percentuale è bassa e la salita è irta di ostacoli): è di moda oggi il termine di casta.  Ma per il raggiungimento di questo obiettivo è stato necessario rivalutare l'incultura affinché la conoscenza vera non creasse un popolo libero. E - forse ricordando anche don Milani che sosteneva che l'unico modo di insegnare fosse "porsi come modello" - ecco che il potere stesso si presenta come modello quanto più "popolare" sia possibile, parlando come una volta non avrebbe fatto neppure una persona con tre anni di scuola elementare, usando scurrilità, citando parole in libertà di attricette televisive quasi si trattasse di grandi filosofi o sapienti, utilizzando stereotipi linguistici e mentali che solo quarant'anni fa una persona di bassa e media cultura si sarebbe vergognata non solo a pronunciar ma perfino a pensare.

L'impatto è potente: se quello lì che parla così (sdogana parole e concetti triviali, scendendo al livello più basso, così infimamente popolare e che quindi è talmente simile a chiunque al punto da rappresentare la mediocrità di ciascuno, al punto che ognuno riesca ad immedesimarsi sentendolo così prossimo, così uguale) è tanto ricco e potente, evidentemente la scuola non serve a nulla. Anzi occorre riformarla! Ed ecco allora ad invocare più serietà,  più selettività, più meritocrazia, allungandola negli anni! Insomma: al punto da renderla  distante dalle esigenze della gente comune. Siamo dunque arrivati così alla convinzione che a "studiare non serve a niente", che "i soldi si fanno in un altro modo", che "il successo è dei furbi"…

Ovvio che il potere resta più che mai padrone della lingua e dei linguaggi che contano. Ma per impedire concorrenza o insidie di sorta ha rivalutato l'analfabetismo e l'incultura, cosicché l'incapacità di ragionare e di capire non sia più (come un tempo) motivo di timidezza o di aspirazione al progresso, ma motivo di vanto e fierezza.

E allora che lo si dica e lo si ripeta  e lo si scriva in ogni posto, nelle aule delle scuole elementari e nelle università che “…solo la lingua rende uguali e che ogni parola non imparata oggi è un calcio in culo domani.”





 


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