domenica 27 novembre 2011

Cerchiamo qualcuno che ci ami

La solitudine, il senso di smarrimento, persino l'angoscia e la disperazione. La rabbia urlata. C'è una mescolanza di paura e impotenza, di non senso della vita. A volte cè la rincorsa al cinismo, al potere, alla violenza.  Eppure cerchiamo qualcuno che ci prenda per mano. Che ci accompagni. Che ci ascolti e ci incoraggi. Che ci voglia bene e ce lo sappia trasmettere. Che si chini sul nostro bisogno, che ci sorregga sussurrandoci "non ti preoccupare, sono qui vicino a te". Cerchiamo qualcuno che non ci affossi col giudizio negativo; che sia contento quando ci vede e che si preoccupa se ci allontaniamo. Persino che ci venga a cercare. Cerchiamo qualcuno che ci dia da bere per la troppa sete accumulata, che spezzi il pane sino anche a condividere il nostro dolore, la nostra fatica. Cerchiamo qualcuno che ci scaldi il cuore con lo sguardo, ci faccia fremere con la sua parola. Cerchiamo qualcuno che ci renda capaci di libertà, di osare. Sino a permetterci di sbagliare accogliendoci sempre senza condizioni.

Propongo  l'intervista a Gabriella Caramore, a cura di Franco Marcoaldi, comparsa su la Repubblica del 15 Novembre scorso.
  
"Perché ai credenti servono gli esempi e non più i dogmi"

Senza tema di sbagliare, Uomini e Profeti di Radio Tre, che Gabriella Caramore conduce con
appassionata competenza da ben diciotto anni, è un vero e proprio programma di culto. Tra i molti
meriti di questa trasmissione c'è anche quello di offrire una sorta di radiografia ravvicinata e
costante della spiritualità e della religione, sia in Italia che nel mondo. Perciò è quanto mai
opportuno l'incontro con chi, come Caramore, affronta quotidianamente il problema dell'autorità di
Dio, delle Sacre Scritture, della Chiesa. E da qui potremmo partire. Cercando di delineare una prima
mappatura generale sulle diverse modalità di accostarsi alla figura dell'autorità in ambito religioso.
«Focalizzando l'attenzione sull'Occidente, ci troviamo di fronte a un quadro molto articolato, se non
addirittura frantumato. Viviamo in società sempre più secolarizzate, ma che conoscono il costante
innesto di nuove comunità religiose. Così, da un lato siamo in presenza di quei tradizionalisti
cristiani, o islamici o di altre appartenenze, i quali continuano a riconoscersi nelle autorità che da
sempre contrassegnano il loro mondo e la loro fede: si tratta di realtà magari molto estese, ma
comunque residuali. Dall'altro monta invece, sempre più forte, una domanda di libertà, di ricerca
spirituale individuale, che spesso e volentieri stenta a trovare figure autorevoli capaci di indicare il
percorso lungo cui muoversi. Questa divaricazione si moltiplica in un mondo sempre più composito
e quindi si moltiplica anche una sensazione di smarrimento».
In Italia, però, c'è la Chiesa cattolica. Con tutto il suo immenso peso.
«Fatte salve le diverse sensibilità presenti all'interno della gerarchia ecclesiastica, il volto autoritario
con cui la Chiesa si mostra è ancora forte. Ma anche all'interno del mondo cattolico si avverte una
nuova esigenza di libertà. È una realtà sotterranea, ancora priva di voce e di rappresentanza
pubblica. Però esiste. C'è tutto un pullulare di pensieri e iniziative che non riconoscono più l'autorità
ecclesiastica come un'autorità indiscussa. E la cercano altrove, nello studio della Bibbia, nel
tentativo di vivere una vita maggiormente improntata al Vangelo. D'altronde: come puoi definirti
cristiano, se non ti abbeveri alla fonte prima della cristianità?».
La Chiesa dovrebbe venire soltanto dopo.
«Dovrebbe. Ma storicamente è accaduto, per passaggi che non stiamo qui a ricostruire, che la parola
della Chiesa ha finito per sovrapporsi a quella del Vangelo. Per custodire se stessa e la sua storia, la
Chiesa si è in parte sostituita all'autorità del Vangelo».
Se l'autorità vive anche di distanza e mistero, non v'è dubbio che la Chiesa parta
avvantaggiata.

«A meno che la distanza e il mistero non diventino eccessivi. Se ci si distacca troppo dalla vita
comune e si utilizza un linguaggio troppo lontano da quello della gente, si finisce per perdere
credibilità. È difficile parlare di accoglienza, vivendo nel chiuso dei palazzi. Difficile parlare di
povertà, se poi non la si vive. Detto questo, so bene che il credente non ha sempre la maturità
necessaria ad accostarsi in prima persona, autonomamente, alle Sacre Scritture. Talvolta è una
persona semplice, che ha bisogno di strumenti semplici. E qui torna d'attualità la temibile lezione
del Grande Inquisitore di Dostoevskij, che contrapponendosi al Cristo che aveva offerto al popolo
una libertà impossibile da raggiungere, decide al contrario di colmargli il ventre, facendolo passare
"all'allegria e al riso, alla gioia spensierata e alle allegre canzoncine infantili. E così – dice - noi li
renderemo felici"».
È la linea d'ombra rappresentata dall'abisso della libertà.
«Però non si può abusare troppo dell'innocenza del credente "bambino". Come si fa a tenere alto il
livello teologico del discorso e poi lasciar correre sui miracoli di Padre Pio? Senza mai raffreddare,
senza mai contenere un miracolismo dilagante? Cosa dice il Santo Inquisitore? Io sì che so sedurre
il popolo e attrarlo a me. Lo faccio attraverso il miracolo, il mistero e, per l'appunto l'autorità. Ora,
la Chiesa, forse, dovrebbe essere più accorta e coerente con le parole che vuole conservare e
tramandare. Altrimenti, continuerà magari a sedurre le masse e a intrattenere rapporti con la
politica, ma perderà in autorevolezza presso i credenti "adulti"».
Veniamo alla parola di Gesù.
«Di lui si dice spesso nei Vangeli: parlava con autorità, agiva con autorità, leggeva le Sacre Scritture
con autorità. Non come gli scribi. Con autorità, io credo, in questo caso vuol dire "con coerenza",
"in verità", perché gesti, parole, cuore e intenzione, in Gesù procedono insieme. Quale lezione
dobbiamo trarne? Che l'autorità – l'autorevolezza – viene riconosciuta come tale, se propone parole
e azioni fondate sulla convinzione, la coerenza, la verità e il rischio».
Quanto invece all'autorità che emanano i testi, le Sacre Scritture?
«Ama la Torah più di Dio, diceva Lévinas, a rimarcare l'assoluta centralità del Testo. Ma proprio gli
ebrei ci hanno insegnato che anche di fronte alla parola della Legge si può e si deve esercitare la
propria intelligenza, attraverso l'interpretazione di ogni singola pagina, di ogni singolo versetto, di
ogni singola lettera. Il credente ebreo è – o dovrebbe essere - libero nell'interpretazione, così come
lo sarà poi il cristiano che risponde all'invito dell'apostolo Paolo: "siete stati chiamati a libertà".
Quanto a Lutero, rifonderà la libertà cristiana nel momento in cui la Chiesa sembra essersene
dimenticata. Molti gruppi di cattolici, oggi, è questo che rivendicano. La possibilità di leggere e
interpretare liberamente le Sacre Scritture. È importantissima la tradizione, ma se la si tramuta in
norma, in dogma, la si snatura. Perché la tradizione è calata nel tempo e dunque soggetta a
un'ermeneutica infinita. Spesso, ascoltando la musica, mi vien da pensare che in fondo i musicisti
procedono allo stesso modo. Interpretano un testo, certo rispettandolo e conoscendolo con minuzia
filologica. Ma lo interpretano. Dopodiché, se sei troppo ligio, verrà fuori una cosa piatta, fredda. Se
sei eccessivamente arbitrario, verrà fuori una cosa strampalata. Bisogna metterci cuore, cervello e
abilità tecnica, per raggiungere il perfetto equilibrio tra rispetto del testo e interpretazione
soggettiva. Ecco, lo stesso accade, credo, leggendo la Bibbia».
Resta che quel testo è il fondamento della verità e ad esso si deve obbedienza.
«Anche qui, con il necessario discernimento critico. Gli esegeti contemporanei ci ricordano che la
maggior parte delle affermazioni storiche contenute nella Bibbia non rispondono al vero. Ma è vera
quell'intenzione, è vera l'istanza di liberazione dell'uomo che il Libro ci propone attraverso l'idea di
Bene e di Dio. Naturalmente non è l'unica storia possibile, ma noi ci riconosciamo in essa perché ne
riconosciamo il linguaggio. In tal senso, è perfetta la definizione di Simone Weil: ogni religione è
l'unica vera, come unico vero è quel paesaggio, quel quadro, il volto della persona amata».
Quanto invece all'obbedienza?
«Ob-audire vuol dire ascoltare. In un versetto fin troppo citato dei Salmi è scritto: "Dio una parola
ha detto, io due ne ho udite". E in un altro passo del Deuteronomio si afferma: "oggi ho posto
davanti a te il bene e il male, la vita e la morte. Tu scegli la vita". Ovvero: io ti dico cosa devi fare, a
te scegliere di farlo. Dunque la tua libertà non è violata dall'obbedienza».
C'è un punto in cui credenti e non credenti possono trovare lo stesso fondamento di autorità?
«Esiste un passo di Dietrich Bonheffer che amo molto e che dice più o meno così: la tradizione
cristiana mi ha insegnato a guardare il mondo dal basso. L'autorità politica, religiosa, morale di oggi
si presenta come un guscio vuoto? Ebbene, io la cercherò nella tradizione e contemporaneamente
nel volto dell'altro che soffre. Perché sia un testo autorevole del passato, sia gli occhi di un bambino
che ha fame, mi trasmettono lo stesso messaggio: mi invitano ad agire e mi indicano come farlo. Il
mio compito sarà quello di offrire una risposta all'altezza della domanda che mi viene rivolta».

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