sabato 8 febbraio 2014

Di vita, di morte e di ciò che si lascia



E’ morto Carlo, un uomo in età avanzata. Un uomo che ha vissuto. Non so nulla di lui, lo conoscevo appena. Ma so che ha amato ed è stato amato dai suoi due figli, dai nipoti e dai tanti che lo avevano conosciuto.

Di questi due figli io ho l’onore di conoscerne (non dico bene, ma quel tanto che basta per poter dire di lui tutto il bene, e benedirlo al Signore) uno, il buon Luigi.

 Dicevo è morto Carlo, il papà di Luigi e oggi ho partecipato al suo funerale. Mi commuovo sempre e i funerali sono difficili da “digerire”. Così anche a questo funerale (se si può dire bello di un funerale ebbene per me lo è stato!), semplice e ricco, con un prete “presente” e partecipe dell’evento che si stava svolgendo, non ho risparmiato lacrime e commozione. 

Mi sono arricchito, ho pregato e mi sono sentito più uomo, più profondamente umano. E contento di far parte d’un popolo che pensa alla morte, celebra la morte, come memoria e come promessa di resurrezione. Come promessa d’accoglienza presso il Padre.

Riflettendo sulla morte, dei miei genitori, dei miei nonni, di cari amici ho sempre meditato sul lasciare semi/segni di sé a chi vive.  Ho sempre pensato, come un ebreo pensa, che son tre cose almeno che un uomo debba fare nella vita e lasciarle in eredità al futuro: il generare figli, il piantare un albero e avere una grande casa per accogliere gli ospiti e gli amici. E da non più giovanissimo son contento d’aver, per così dire, adempiuto a queste “ promesse”.

Al ritorno, in macchina mi è tornato alla mente un brano di un libro, Fahrenheit 451, scritto da Ray Bradbury.

 “Ognuno deve lasciarsi qualcosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualcosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che taglia il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta la vita”.




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