Bè
ci siamo commossi ieri sera in piazza san Pietro e davanti alla televisione ad attendere l’habemus papam.
Francesco
è il nome “nuovo” di un papa, Papa Francesco.
Già
introdotto con questo nome si è presentato bene il cardinale argentino dal nome
e dai cromosomi italiani.
Francesco
è un nome impegnativo, pesante come un macigno e insieme leggero come una
nuvola o una farfalla, ardito.
Evoca
scelta evangelica radicale, un programma ridotto all’essenziale per ritornare
al sine glossa nel presente di una
fede acciaccata e rattrappita.
Sine glossa per sgombrare coltri di parole che offuscano la Parola.
Sine glossa, senza orpelli e trionfalismi, autocelebrazioni e
autoreferenzialità.
Come
la croce di metallo povero al collo di papa Francesco.
Non
sontuoso collare d’oro.
Nuovo
è l’utilizzo marcato come overture di vescovo di Roma.
Più
volte così si è definito (per di più senza mai pronunciare la parola papa). La
dimensione della chiesa locale, di una particolare e specifica diocesi è pietra
miliare dell’essere papa.
Leggo
in questo un’attenzione alla sfera ecumenica della missione che lo attende.
Ultimo ma non ultimo il
fatto che papa Francesco abbia chiesto la benedizione del popolo prima di
essere lui a benedire.
E’ un segno che reca
un’idea di reciprocità, quasi riconoscimento e scambio alla base delle
relazioni all’interno della chiesa.
Certo, sono pochi segni di
un uomo, questo si venuto da lontano, fino “dalla fine del mondo”, sconosciuto.
I segni però raccontano
qualcosa, esprimono una vita, narrano il cuore dove ama abitare.
Per ora attraverso questi
segni, ricevuti come promesse, leggo una Chiesa, la mia Chiesa, che sa ancora
accendere i cuori, che sa ancora sorprendere e spalancarci alla speranza.
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